27. "Come here, you fool"

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Uno dopo l'altro gli edifici alti e le case moderne di Berlino scomparivano davanti alla vista di Bill.
Stava tornando a casa, finalmente. Sentiva già la voce squillante di Lea, il profumo della torta di carote di sua madre e il continuo abbaiare del cane della vicina. La quotidianità, era ciò che più lo tranquillizzava nella vita.

Il cielo era quasi completamente blu, erano partiti tardi e sarebbero arrivati a Magdeburgo per le dieci, in inverno tutto diventa buio in un secondo. Le stelle non c'erano, brutto segno: il giorno dopo probabilmente ci sarebbe stato un tempo poco invitante. Uno degli insegnamenti del professore di chimica, per lui il giorno successivo era bello solo se la notte notavi le stelle nel cielo.

E quella sera non ce n'erano, un vero peccato. Il moro amava contarle e inventarsi i nomi, dato che non ne conosceva neanche mezzo. Dava i nomi alle stelle come i bambini piccoli li danno alle bambole o agli animali di peluche. Bill era bambino dentro, questo lo si constatava in fretta.

Non in senso negativo, era bambino per l'entusiasmo che metteva in tutto ciò che faceva, per l'infinita voglio di non crescere, per la risata fragorosa che risuonava in ogni stanza lui fosse presente. Un eterno Peter Pan, sebbene quel cartone non gli fosse mai piaciuto.

Aveva il posto vicino al finestrino in quel treno, se non era vicino al grande vetro iniziava ad agitarsi. Lui aveva bisogno di vedere, poter poggiare il naso e fingere non ci fosse un muro trasparente a dividerlo dal mondo esterno. In questo modo nelle gallerie, col buio, poteva osservare il suo riflesso e non occorreva portare specchietti di ogni genere. Era sempre al corrente sul suo aspetto e su quanto sembrasse addormentato su una scala da uno a dieci.

Ora però, chi fissava il finestrino non vedeva solo la figura del moro, notava anche un corpo raggomitolato addosso a lui: Tom Kaulitz. Se ne stava stretto stretto alla giacca di pelle di Bill, e respirava sia dal naso che dalla bocca. La bandana gli ricadeva storta sulla fronte e i cornrows erano sparsi dietro la sua schiena e uno o due erano intrecciati tra le dita dell'altro ragazzo. Trümper si divertiva a giocarci quando Tom dormiva, non aveva modo di obbiettare. Attorcigliava quei capelli neri intorno alla sua dita lunghe e affusolate. Erano un continuo avvolgere e lasciar andare, avvolgere e lasciar andare.

Il rumore pesante del fiato del moro lo cullava e lo faceva distogliere da ogni pensiero. Stava cercando una frequenza cardiaca che fosse uguale a quella di Tom, voleva sentire i loro cuori battere all'unisono, ma il suo andava fin troppo veloce. Pum pum pum. Batteva forte perché si sentiva felice. Aveva le guance tutte rosse perché sapeva che chiunque, una volta posato l'occhio su di loro, avrebbe potuto ipotizzare su una loro possibile relazione.

E più a meno era così. Semplicemente non era ufficiale, non si capiva ancora che cosa entrambi volessero.

Il cervello di Bill pensava a lungo, pensava in modo profondo e a volte stancante per il suo corpo. Non aveva neanche fatto caso al moro, che intanto si era svegliato, producendo suoni molesti con la bocca.

Bill si mosse e si appiccicò al finestrino, convinto che Tom si fosse svegliato perché infastidito da quel contatto.

«Perché ti sei spostato? Mi piaceva» disse con uno sbadiglio, era ancora nel mondo dei sogni.

Lui non rispose. Si limitò a riposizionarsi come in precedenza e ad osservare il ragazzo di fianco a lui.

«Cercavi le stelle?» chiese Tom, notando che Bill non aveva proferito parola.

«Come fai a saperlo? Tu dormivi» rispose l'altro con uno sguardo dubbioso.

Guardarono entrambi prima fuori dal finestrino, lunghe file di alberi scorrevano veloci sotto i loro occhi, e poi l'uno negli occhi dell'altro.

«È vero, ma il mio respiro ogni tanto mi svegliava. Alla fine finivo per osservarti, non so perché mi davi calma» e così tolse a Bill ogni dubbio precedentemente formato.

Lo guardava? Oh, ma lui si sentiva un vero disastro. Non era truccato e aveva i capelli sfatti.

«Russi qualche volta» lo sgridò il moro con una risata fragorosa. Più che una ramanzina, lo stava prendendo in giro.

«Mi dispiace» disse l'altro accennando un sorriso, sapeva che non era facile sopportare uno che russava, tanto meno se te lo devi sorbire tutto il viaggio.

«È tutto okay» aggiunse Bill lasciandogli un bacio sulla tempia.

A quel contatto il moro si girò, guardò l'altro negli occhi e sfoderò un broncio, come un bambino di quattro anni.

«Che hai?» chiese Trümper aggrottando la fronte, creando tante piccole rughe sulla pelle.

«Io non volevo un bacio sulla fronte» disse incrociando le braccia al petto.

«È il prezzo da pagare per non avermi lasciato chiudere occhio col tuo continuo russare. Ora devi soffrire» lo schernì l'altro, ridendo a più non posso.

Tom sfoderò un broncio ancora più broncio al solo sentire quelle parole.

Si beccò da un pugno sulla spalla da Bill, i suoi sembravano sforzi vani. Amareggiato girò quindi la testa e fece un piccolo sbuffo che, però, risultò grande nella sua mente.

In quel momento, si sentì afferrare per i lembi della maglietta.

«Vieni qui, stupido» disse la voce del moro, prima di avvicinarlo a sé.

Brown Eyes || Twincest.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora