COME BACK

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PROLOGO

Il buio avanzava in un labirinto di alberi che torreggiavano verso lo spicchio di luna tranciato di netto dalle nubi. I lunghi artigli delle ombre graffiavano il silenzio, come rami contro una finestra. Eppure, le tenebre più profonde e oscure che stavo per incontrare non appartenevano alla notte. Scavavano una crepa abissale nel ghiaccio fluido di quegli occhi che danzavano spietati davanti a me, come falene che si dibattono per raggiungere il fioco bagliore di una lanterna.

Nessuna luce mi apriva un varco tra quella massa di terrore, non c'era nessuno spiraglio che potesse sottrarmi da quel buio che minacciava di raggelare ogni parte di me ancora in vita.

Stavo andando incontro alla morte, verso la fine che nessuno mi aveva mai predetto. Nessuno mi aveva mai spiegato cosa fosse il dolore. Non potevo riconoscerlo. Per questo gli andai incontro.........

Quando sarò pronta, e non avrò più paura di raccontare il motivo per cui da otto anni vivo nel più assoluto terrore, allora, e solo allora questo prologo sarà completo...

Vorrei davvero potermi confidare con voi, ma questo metterebbe in gioco la vostra vita... e ritengo che un mio sfogo in cambio delle vostra sicurezza non sia un buon compromesso.


1

COME BACK

La luce ambrata del mattino filtrava tra le tende mosse dal vento, scivolando come un'intrusa contro le pareti ed incurvandosi verso il mio volto come dita affusolate di un pianista.

Aprii gli occhi e vagai con lo sguardo in cerca della sveglia. Erano appena le sei e mezza del mattino ma da sotto la finestra aperta della mia camera sentivo già le urla di richiamo dei fruttivendoli, il rumore delle cassette di legno che si spezzavano sotto le suole delle scarpe, la musica del bar dell'angolo.

Mi alzai dal letto e mi avvicinai allo specchio a muro per osservarmi: in questi ultimi otto anni qualcosa in me era cambiato così tanto da non farmi più capire cosa fosse rimasto uguale a prima. L'infantilità e l'ingenuità dei miei anni erano scomparsi dal mio volto, lasciando il posto all'espressione dura e ostile di una donna che non era ancora in grado di esserlo per davvero. Ero goffa come una bambina che indossa le scarpe dal tacco della mamma per giocare a fare la grande.

Fissai il mio sorriso riflesso nello specchio, falso, incapace di allontanare quel senso di vertigine che mi ricordava che in me non c'era più un solo lembo di pelle sano e inattaccabile. Era come se il mio cuore si fosse spezzato in due parti. E anche se un giorno fossi riuscita a rimetterle insieme, la crepa sarebbe rimasta sempre lì, a ricordarmi che ero diventata una bambola rotta e che certi errori non avrei mai smesso di pagarli. E a ricordarmi quella lontana sera di otto anni prima, quando avevo appena tredici anni.

Ora ne avevo ventuno, e c'erano ancora così tante cose che avrei voluto capire. Una tra tutte come guarire da questo dolore, fulmineo e senza senso, che mi penetrava inesorabile nella carne. Un dolore che non conosceva rimorsi o pietà e che sembrava beffarsi delle mie lacrime.

Ma ormai non avevo più tempo. Dovevo ritornare a casa, riappropriarmi della mia vita e riprenderla da dove l'avevo interrotta.

Otto anni, dunque! Mi erano serviti otto anni per ritrovare il coraggio di tornare nel mio paese, a Port Angeles. Per tutto questo tempo avevo vissuto a Port Townsend, una minuscola cittadina nell'estremo sud-est della penisola di Olimpia, insieme a mia nonna, l'unica a sapere il perché i miei occhi da troppo tempo non sorridevano più.

"Telefonami quando arrivi". Mi abbracciò un'ultima volta prima di lasciarmi salire sul treno.

"Non preoccuparti".

La libertà più grandeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora