INIZIA IL GIOCO

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Stephen si voltò, attirato dal rumore dei miei passi lungo il corridoio. Era davanti alle scale che portavano al piano superiore, le braccia incrociate tanto forte che le vene sui muscoli si erano gonfiate. Sembrava preoccupato ma non capivo di cosa. Gli andai incontro a passi lenti, strisciando una mano sulla parete per sorreggermi. In quel momento sentii la porta d'ingresso sbattere, segno che suo padre se ne era andato. Tirai un respiro profondo.

"Dov'eri finita? Tutto bene?", domandò svelto, afferrandomi per un gomito quando le gambe minacciarono di non sorreggermi.

Provai ad annuire ma ogni movimento della testa mi provocava fitte e capogiri. Avevo la sensazione che la mia faccia fosse bianca come un lenzuolo.

"Forse dovresti mangiare qualcosa". Mi diresse verso il profumo di uova e pancetta, allontanò una sedia dal tavolo e mi fece sedere.

Mi riempì un bicchiere di succo d'arancia e lo trangugiai tutto d'un sorso. Avevo la gola arsa dalle lacrime che non avevo versato.

Tendevo le orecchie, attenta ad ogni rumore della casa. Accanto a Stephen mi sentivo al sicuro, ma non potevo dimenticare che pochi metri più in là c'era uno degli uomini che avevano popolato i miei incubi per otto lunghissimi anni. Dovevo andarmene. Mangiare in fretta e fuggire senza far insospettire Stephen.

Il suo sguardo era teso, preoccupato. Mi fissava da sotto le sue lunghe ciglia, in silenzio. Aveva sentito qualcosa di quello che c'eravamo detti suo padre ed io? Era per questo che mi studiava così? Ricambiai lo sguardo, cercando di recitare alla perfezione la parte dell'innocente.

"Ora tocca a te", dissi, giusto per distrarlo. "Presentarti ufficialmente a mio padre, intendo".

Lo sguardo nei suoi occhi rimase vuoto, senza la minima ombra di eccitazione. Era perso dietro una sequenza di pensieri, mi fissava senza vedermi.

Aggrottai la fronte, sorpresa. Era strano che, dopo aver insistito tanto per ufficializzare quello che c'era tra noi, di punto in bianco non si mostrasse entusiasta.

"Non ho idea di come la prenderà ma sarà bene spianare il terreno", continuai, parlando un po' più forte. "Sai, ci tengo alla tua vita".

All'improvviso sbatté le palpebre, scattando come se gli avessi tirato un calcio negli stinchi. "Che hai detto?".

Mi accigliai. "Non hai sentito una sola parola di quello che ho detto, vero?".

Infilzò rabbioso un pezzo di pancetta. "Ero un po' distratto. Non sei l'unica ad avere dei problemi, sai?".

Abbassai lo sguardo. Non era da lui comportarsi in quel modo. Cosa stava succedendo?

"Forse è meglio che vada via", azzardai, alzandomi.

Con uno scatto fulmineo della mano mi bloccò il polso. "Ti accompagno".

"Non ce né bisogno. Devo solo passare a casa a farmi una doccia e poi andrò a lavorare".

Sollevò le spalle.

"Sul serio Stephen".

"Ti accompagno comunque", ribadì, infastidito da qualcosa.

Senza mollare il mio polso mi trascinò verso la porta sul retro. Faticai a tenere il suo passo lungo lo stretto vialetto che portava al garage e più di una volta inciampai, rischiando di finire a faccia a terra. Probabilmente, se fossi caduta, mi avrebbe sollevata di peso usando una mano sola. Mi lasciò libera solo davanti alla sua Audi e a quel punto inciampai ancora e barcollai contro la portiera. La pelle sul polso mi si era arrossata.

"Sali", ordinò, brusco, e a grandi passi fece il giro al cofano, mettendosi al volante.

Mi sentivo completamente spiazzata dal suo cambio d'umore e aspettai di proposito che accendesse il motore prima di voltarmi a guardarlo. Non avevo la più pallida idea del perché il suo umore fosse cambiato, ma conoscendolo sapevo bene di quanto potesse essere passeggero il suo buon umore.

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