ADESSO SEI MIA

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Quando uscii nel parcheggio non trovai Stephen come invece mi aspettavo, dal momento che mi aveva accompagnata con la sua macchina. Mi infilai il grembiule sotto l'ascella e irritata afferrai il cellulare per chiamare un taxi. Era assurdo pensare che mi avesse lasciata a piedi per evitare di spiegarmi cosa avesse detto al mio capo.

Stavo per comporre il numero quando mi sentii chiamare da Robert. Dalla finestra del suo ufficio mi stava facendo segno col braccio di aspettare. Riposi il cellulare e un attimo dopo la porta sul retro si spalancò. Nel buio non vidi la sua espressione ma dal tono capii che era furioso.

"Che ti è saltato in mente di uscirtene da sola?". Mi strattonò per un gomito, trascinandomi lungo il parcheggio. "E' l'una di notte, potevi aspettarmi, no?".

Era la prima volta che mi sgridava perciò mi ritrovai a balbettare, sorpresa dalla reazione. Uscivo da sola tutte le sere. Cos'era cambiato?

"Aspettavo Stephen. Ero certa che sarebbe passato a prendermi".

"Stephen avrà avuto da fare", disse brusco e mi lasciò andare.

Mi accorsi un po' in ritardo che mi aveva trascinata davanti all'auto del cuoco, già seduto al posto di guida. Mi aprì la portiera guardandosi attorno con circospezione e praticamente mi scaraventò dentro.

"Aspetta...", protestai. "Che sta succedendo? Perché Stephen non è qui".

Robert si sporse nell'abitacolo, sdraiandosi quasi sulle mie ginocchia per guardare bene in faccia il cuoco.

"Portala dritta a casa", si raccomandò.

"Agli ordini capo", lo canzonò, facendo il saluto militare. Poi avviò il motore e Robert sbatté la portiera.

Mi voltai verso il cuoco, ancora confusa. "Tu lo sai che sta succedendo?".

"Certo che no". Chissà perché lo dava per scontato? "Robert mi ha detto solo di portarti a casa, nulla di più".

Mi accasciai sul sedile. Stavo cominciando a insospettirmi. "Non è che potresti portarmi a casa del mio fidanzato?".

Per un momento apparve dubbioso.

"Andiamo, cuoco", mi lamentai.

"D'accordo. Non mi ha dato divieti su questo. Ma se perdo il posto è colpa tua".

"Non glielo diremo", cospirai, soddisfatta.

Con una brusca manovra invertì il senso di marcia e si infilò nell'autostrada. Quando parcheggiò sul ciglio del marciapiede attese che attraversassi la strada e suonassi il campanello – per la verità avevo finto di farlo perché erano quasi le due del mattino- prima di ripartire. Era tutto molto strano. Troppo strano per non voler indagare. E ora Stephen avrebbe dovuto darmi delle risposte.

Feci il giro della casa e raccolsi alcuni sassolini che scagliai contro il vetro della finestra della sua camera. Picchiettavo impaziente la punta della scarpa sull'erba, contando lentamente i secondi tra un lancio e l'altro. Poi finalmente la luce si accese e dopo pochi attimi Stephen si affacciò con un'espressione irritata stampata sul volto.

"Lo sai che ore sono, ragazzina?", parlò a voce alta. "Entra dal retro. E' aperto".

Socchiusi piano la porta, girando cauta la maniglia e puntai immediatamente le scale, camminando in punta di piedi.

Entrare in camera sua fu come mettere piede tra le pagine di una rivista di arredamento. Era cambiato tutto, non c'era più niente di quello che ricordavo. I poster dei Simpson erano stati sostituiti da un'alta libreria di metallo, accanto alla scrivania c'era un grande impianto stereo e dalla parte opposta del letto a due piazze c'era un tavolino rotondo e un divano di stoffa bianca, che si abbinava alle tende della finestra e al copriletto di raso. Più che una camera da letto sembrava un salotto. C'erano un sacco di libri infilati nei ripiani della libreria e un computer portatile sulla scrivania che faceva sembrare il mio un vecchio oggetto di antiquariato. Mi guardai attorno intimidita fino a quando la sagoma di Stephen accanto alla finestra attirò la mia attenzione.

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