GELOSIA

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Stephen mi sistemò la sua giacca sulle spalle e infilò un braccio attorno ai miei fianchi. Era assurdo il modo in cui mi batteva il cuore appena lui mi toccava.

Mi aveva accompagnata alla mia auto ed ora teneva lo sportello aperto per farmi entrare. Alle nostre spalle le luci esterne della palestra si spensero in un ronzio. L'oscurità e il silenzio ci avvolsero, eppure in me non c'era traccia di paura. Sarei rimasta lì anche tutta la notte se questo fosse servito a ritardare il momento dei saluti.

"Non ti fermare lungo la strada", raccomandò, puntando lo sguardo verso la tangenziale.

"Per nessuna ragione al mondo".

Si sporse dentro l'abitacolo e inserì la chiave nel quadro, controllando qualcosa. "Hai abbastanza benzina?".

"Calmati, Stephen".

Allungai un braccio e gli sfiorai la spalla. Un suo muscolo guizzò sotto le mie dita: non riuscivo a capire se lo infastidiva essere toccato da me o se invece gli piaceva. A me piaceva più del lecito. Non riuscivo più a farne a meno. Mentre lui manteneva le distanze e serrava forte la mascella ogni volta che cercavo di azzerarle.

Sbirciò verso l'orologio del cruscotto. "Dovresti essere a dormire già da un pezzo. Tuo padre sarà preoccupato".

Gettai il borsone sui sedili posteriori e mi sfilai la giacca, annusandone il profumo per un'ultima volta. Era buono. Mi faceva passare la voglia di tornare a casa.

"A cosa pensi?", mormorò.

"Ai profumi", restai sul vago.

Annusò l'aria e si strinse nelle spalle. "Sento solo odore di merda e gas di scarico... ma se tu li consideri profumi...".

"E tu? A cosa stai pensando?", chiesi, lieta che non avesse capito a quale profumo mi stessi riferendo.

Ridacchiò, mezzo assorto. "Ripensavo a quella volta che avevi cercato di colpirmi per via di una cosa che ti avevo detto... ora non ricordo cosa... e nella foga del colpo eri rimbalzata su di me, cadendo in quel fosso pieno di fango". I ricordi sfociavano sul suo volto in una serie di espressioni divertite e a tratti nostalgiche. "Io e Trevis ti avevamo ripescata e tu eri scappata a casa, urlando che non saresti mai più stata mia amica e che mai più mi avresti rivolto la parola". Mi studiò un attimo. "Te lo ricordi?".

Annuii.

"Beh, appena tu ti allontanasti, Anne intervenne come una furia". Si abbassò il colletto della maglia per mostrami una sottile cicatrice, leggermente più chiara rispetto la pelle abbronzata. Scoppiò a ridere. "A Trevis comunque andò molto peggio".

Lo osservai, improvvisamente seria. Ogni ricordo portava con sé una lunga scia di altri ricordi.

"Che c'è?", chiese urgente.

"Mi manca", confessai di getto. "Mi manca com'era tutto prima che me ne andassi. Era tutto così... semplice! Nessuna complicazione, nessun dolore...".

"Parla per te", scherzò, premendo un dito sulla propria cicatrice.

"Hai avuto un'infanzia difficile", concessi, sarcastica.

Mi sorrise, con quel sorriso canzonatorio, caldo e familiare, che apparteneva alle cose che mi erano mancate di più. Sentii le mie labbra aprirsi in un sorriso di risposta.

"Hai ancora paura di me?", mi colse di sorpresa.

Restai zitta, guardandomi attorno e notando alcuni particolari di quel parcheggio che in un'altra occasione mi sarebbero saltati subito all'occhio. Come i due alberi a lato della strada, così vicini e col tronco talmente grosso che avrebbero potuto rappresentare un ottimo nascondiglio. O il buio che si intrufolava in ogni angolo rendendolo inaccessibile alla mia vista, privandomi di ogni possibilità di controllo.

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