APPUNTAMENTO

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Appena mia nonna venne informata dell'accaduto andò in piena crisi isterica. Mi ci vollero ore ed ore davanti al computer per convincerla attraverso una cinquantina di e-mail che andava tutto bene e che non l'avevo fatto per convincere i miei genitori a lasciarmi tornare a Port Townsend. Non riusciva a credere alle sue orecchie quando le dissi che a Port Angeles non stavo poi così male, per lo meno non abbastanza da tentare il suicidio. Arrivò perfino ad implorarmi e a minacciarmi di venire lei di persona a prendermi, ma alla fine riuscii a dissuaderla.

Fu molto più difficile invece lasciarmi dare il consenso da parte di mio padre per andare a cena da Stephen e dovette intervenire mia madre, ricordandogli che non ero in punizione e che trattandomi come una prigioniera avrebbe ottenuto solo altri silenzi da parte mia.

Riuscito a convincere mio padre, salii in macchina e feci uno sforzo mentale per ricordare quale strada percorrere per arrivare a casa di Stephen senza per forza passare davanti al mio vecchio liceo. Dalla codarda che ero mi rifiutavo di passare lì davanti.

Impiegai mezz'ora ad arrivare e quando parcheggiai la macchina mi bastò un'occhiata per capire che gli altri erano ancora più in ritardo di me.

Stephen venne ad aprirmi mentre stavo per accingermi a bussare.

"Sono in ritardo", abbozzai.

Si richiuse la porta alle spalle e si avviò lungo il vialetto a passi svelti.

"Dove stai andando?", gli corsi dietro.

Si voltò di scatto. La postura era tesa, l'espressione talmente dura da sembrare scolpita nella roccia. Mi fissò silenzioso, poi lasciò dondolare le chiavi dell'auto tra due dita e me le lanciò.

"Guida tu", ringhiò.

Afferrai le chiavi al volo e mi avvicinai. Stephen mi aveva già aperto lo sportello e ora stava facendo il giro del cofano.

"Non dovevamo cenare qui?".

"Non più", sussurrò, lanciandomi un'occhiata fulminea.

I suoi occhi erano freddi e duri. Li teneva socchiusi, come se non riuscisse a vedermi bene.

Guardai la portiera aperta. "E ora dove stiamo andando?".

"Ti porto fuori a cena".

Salii in macchina ma non accesi il motore. Mi limitai a fissarlo.

"Che è successo Stephen?". Possibile che fosse ancora arrabbiato per le e-mail della sera prima?

Serrò i denti e chiuse le mani in pugno. "Oggi mi ha telefonato Alex".

"Ah". Collegai tutto.

"E' tutto quì quello che hai da dire?".

"Non dovevi venirlo a sapere", farfugliai, peggiorando le cose.

Con uno scatto allungò il braccio sul volante e si sporse su di me, avvicinando le labbra alle mie. Mi sforzai di non abbassare gli occhi sulla sua bocca ma di tenerli fissi nei suoi. Erano la cosa più spaventosa che avessi mai visto. In questi ultimi otto anni almeno. Ma erano pur sempre meno spaventosi della sua bocca. Mai nessuno si era avvicinato tanto a me.

"Ora voglio una spiegazione e tu me la darai. E vaffanculo se comincerai a blaterare riguardo al fatto che non ho titoli per pretendere delle risposte da te".

"Non volevo farmi del male", dissi in fretta. "Mi dispiace averti messo in ansia".

"In ansia è riduttivo. Hai idea di come mi sia sentito oggi?".

"Alex ha aspettato un po' di giorni a dirtelo".

Rilassò i muscoli, lasciandosi distrarre dal mio commento. "Come forse avrai notato io e Alex non ci sentiamo più così spesso".

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