PUNTI DI VISTA

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Digitai velocemente le ultime parole del quarto capitolo, salvai e ne iniziai subito un altro, non sapendo bene ancora cosa scriverci. Fissavo la scritta in grassetto capitolo 5 sentendo la testa vuota. Ci rinunciai e spensi il computer.

Mi sdraiai sul letto e guardai il soffitto. Chissà se Stephen mi stava pensando? Chissà se era riuscito a trovare un nome alla mie paure? Quasi sicuramente pensava a me come ad una matta lunatica e visionaria.

Sospirai e chiusi gli occhi: l'immagine del soffitto della mia stanza venne sostituita dagli occhi scuri di Stephen. Quando li guardavo sembravano due pozzi senza fine, pronti ad inghiottirmi. Avevano la capacità di nascondere come uno scudo ogni sua emozione e allo stesso tempo farmi tremare perché la manifestavano troppo apertamente.

Riaprii gli occhi. Riecco il soffitto.

Mia madre fece capolino sulla porta. "E' pronta la cena".

"Arrivo".

Scesi al piano di sotto e trovai i miei genitori già seduti a tavola.

"Come è andata ieri sera?", mio padre non aspettò nemmeno che prendessi posto sulla sedia.

"E' stato divertente". Scostai la sedia. "Ho rivisto Anne e Trevis".

"Bene!", commentò, alzando lo sguardo verso il piccolo televisore acceso. Da quando in qua guardavano la tv anche durante i pasti? La indicò con la forchetta. "Dicono che domani sarà un bella giornata".

"Potremmo andare alla spiaggia!", propose mia madre.

La ignorai.

"Senti papà...", attaccai impacciata. Non ero certa del discorso che mi ero preparata ma sapevo che era ora di affrontarlo.

"Sì?".

"Stavo pensando che... forse...". Pessimo inizio.

Sollevò gli occhi dal piatto, osservandomi paziente da dietro le lenti degli occhiali. Non sapevo come proseguire. Non sapevo nemmeno se lo volevo realmente.

Sole poche ore prima avevo fatto una promessa a Stephen ed ora stavo per infrangerla. I sensi di colpa mi fecero passare la fame. Stavo per informare i miei genitori che me ne sarei andata di nuovo. Era quello che desideravo e non volevo rinunciarvi a causa del banalissimo sorriso di Stephen. A Port Angeles avevo paura perfino dell'aria che respiravo. Ogni cosa, tutto, tutto di questa città riapriva ferite che avevo impiegato otto anni ad imparare a come gestirle.

Volevo andarmene! Ma era molto più facile pensarlo che dirlo a voce alta. Dovevo andarmene prima che la situazione si facesse ancora più complicata. Per un momento avevo ceduto alla debolezza e ai ricordi. Ora era tempo di reagire o non lo avrei fatto più, ed ero stanca di aver paura.

Riformulai la frase. "Probabilmente non sarete d'accordo ma...". Mi fermai ancora.

"Papà ha una buona notizia per te", intervenne mia madre.

"Che notizia?".

"Oh, niente di ché", minimizzò mio padre, pulendosi la bocca col tovagliolo. "Ti ricordi quel mio amico che ha aperto il Burgher King?".

"Sì, ovviamente". E ovviamente non avevo idea di chi stesse parlando. Ma avevo fretta di riprendere il penoso discorso che avevo penosamente iniziato.

"Tempo fa mi aveva detto di essere a corto di personale, così sono passato a trovarlo e mi ha detto che ci sarebbe un posto per te", mi spiegò.

Trattenni il respiro per non esplodere. Sembrava quasi una congiura; ogni volta che ero sul punto di andarmene, qualcosa di più grande di me mi tratteneva in questo maledettissimo posto. Sentii la mia libertà scivolarmi tra le dita come granelli di sabbia.

La libertà più grandeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora