8.

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Non ero mai stato così tanto silenzioso in vita mia.
A casa, a scuola, in giro.
Era ormai passato un mesetto da quell'episodio. Per quanto mi fossi imposto di reagire, non ci riuscivo mai pienamente, essendo al tempo stesso terrorizzato dalla situazione. Andavo avanti senza mangiare regolarmente, non biascicavo parola se non sotto interrogazione, non guardavo mai qualcuno dritto negli occhi ed uscivo di casa solo per andare a scuola, o per fare servizi imposti da Karen - non trovavo più il coraggio di chiamarla madre.
Sembrava non ricordassi come fosse vivere prima di allora. Io, poi, avevo mai vissuto?
In fondo cosa voleva dire "vivere"? Cosa significava realmente?
Vivere è essere innamorati?
Vivere è viaggiare?
Vivere è fare sempre nuove esperienze?
Vivere è ballare sotto la pioggia?
Vivere è scoprire cose nuove quotidianamente?
Vivere è ridere?
Vivere è respirare aria pulita?
Beh, non l'avrei mai saputo.
Sospirai, dando un'occhiata veloce al calendario. Sabato. Mi trovavo, come mio solito, sul letto, con un forte senso di vuoto, apatia.
Erano giorni che non riuscivo nemmeno a piangere. Niente. Guardavo il soffitto e non sentivo niente.
Avrei dovuto preoccuparmene, sfogarmi, parlarne con qualcuno...e con qualcuno, intendo uno psicologo.
Avevo provato a reagire con le mie sole forze, a diventare quel cattivo ragazzo dall'aria menefreghista, altezzosa, indifferente, col cuore di acciaio. Era durato un solo giorno. Il mio carattere non mi permetteva nemmeno di fingere per mostrarmi l'opposto di ciò che ero. Come ero riuscito ad andare avanti prima di allora?
Posai lo sguardo sulla sveglia. Erano le 20:30, ora di cena.
La famigliola amorevole aveva rinunciato persino a chiamarmi per essere presente a tavola, ed io non facevo nessuno sforzo per tentare di sedermi con loro ed intavolare una conversazione con persone che non sopportavano la mia presenza.
Un vantaggio per tutti.
Non me ne facevo un grosso problema, dopotutto, e non avevo nessun rimpianto nel saltare i pasti.
Harry, però, mi teneva costantemente d'occhio, quindi in mensa, a scuola, tentavo di comportarmi diversamente, nonostante fosse difficile.
Ad ogni boccone che ingurgitavo, compariva un senso di colpa nella mia mente.
Che non mi volesse perché sono grasso?
Eppure non sembrava importargliene, quella sera...
Mi sfiorai piano le labbra con le dita.
Riuscivo ancora percepire la sua presenza, riuscivo ancora a sentire il suo profumo, riuscivo ancora ad avvertire il pungere della sua barba sul mio volto.
Chiusi gli occhi e ripensai a quel momento: le labbra del mio peggior nemico sulle mie.
La sensazione più bella in vita mia.
Avevo riflettuto molto. Non avrei potuto fare altrimenti: avevo passato la maggior parte del tempo in solitudine.
Solo una domanda frullava nella mia testa, e ragionai sulle possibili risposte che avrebbe potuto darmi nel caso in cui glielo avessi chiesto.
La prima ipotesi: avrebbe ignorato la domanda. Molto probabile, conoscendolo.
La seconda ipotesi: avrebbe dato una risposta ironica.
La terza ipotesi: mi avrebbe riso in faccia, rifilandomi una cattiveria come scusante.
La quarta ipotesi: mi avrebbe dato una risposta seria e soddisfacente, spiegando il tutto razionalmente e con calma.
Ed io, che in due settimane non avevo fatto altro che tormentarmi, quel sabato sera, alle ore 20:34, arrivai alla conclusione che avrei fatto meglio a chiedergli spiegazioni. Se non lo facessi, impazzirei sul serio. Non poteva ignorarmi ancora.
Così, colto da un improvviso moto di coraggio, mi alzai dal letto aggiustandomi i capelli ed i vestiti che avevo indosso, ed aspettai.
Quando sentii dei passi sulle scale, e la porta di fronte alla mia richiudersi, mi avvicinai alla mia porta. Portai una mano sul pomello, e solo in quel momento mi accorsi di quanto fosse sudata, e di quanto il mio cuore battesse freneticamente.
Eppure avevo solo pensato di avvicinarmi a lui.
Avevo solo pensato al suo viso.
Oh, Dio, il suo viso.
Era da circa un mese che lo evitavo, che non lo guardavo.
Non sapevo come portasse i capelli, se avesse tagliato la barba, se avesse cambiato modo di vestire o profumo.
Aprii la porta di camera mia, e feci quei sei passi che mi separavano da lui. Deglutii, e cercai di ignorare la voglia che mi spingeva a tornarmene indietro per chiudermi dentro la mia stanza non uscendone più. Poi, con tutto il coraggio e la sfrontatezza che riuscii a trovare, bussai alla sua porta.
Aspettai ben dodici secondi, prima che mi venisse ad aprire, ed in quell'esatto momento, trattenni il respiro.
Lui si bloccò, ed io alzai lo sguardo per poter incrociare, finalmente, il mio sguardo col suo.
I capelli li aveva fatti crescere in cima, lasciando un accenno di ciuffo rialzato, mentre ai lati li aveva accorciati quasi del tutto.
La barba era stata rasata di recente, per cui non era molto visibile, solo accennata.
Il gusto nel vestire era rimasto tale e quale, così come il suo profumo. Dio, mi mandava in estasi. Di nuovo, e questa cosa mi sorprese abbastanza, c'era un piercing sulla narice sinistra del suo perfettissimo naso.
Stetti a guardarlo con la bocca leggermente socchiusa. Lui parve accorgersene, infatti portò la mano al naso e se lo accarezzò, quasi come se ne ricordasse solo in quel momento.
Mi ripresi per quei due secondi, e, tornando a guardarlo negli occhi, gli chiesi di getto, senza introduzioni, la fatidica domanda che mi tormentava da settimane.

You stood by me. || Ziam Mayne.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora