Capitolo dodici

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La finestra era aperta.
Da lì entravano con prepotenza i rumori e le luci della citta di Konoha. Il cielo della sera, di solito splendente per via della luna e delle stelle, era nascosto da nuvole grigie, probabilmente avrebbe piovuto.
La stanza era in disordine, come se un uragano si fosse abbattuto solo in quella parte circoscritta dell'appartamento, o come se fosse stata del tutto abbandonata, alla deriva.
Un automobilista innervosito aveva suonato il clacson della sua auto, in lontananza.
Le tende chiare si muovevano leggiadre, accompagnate da una lieve brezza.
Una madre chiamava il figlio a squarciagola, un suono ovattato e surreale.
Non lo percepiva a fondo, non sentiva niente... In verità.

Non si muoveva. Non avrebbe potuto.
Era rimasta per ore intere sul letto, con la testa affondata per un solo lato nel materasso.
Le lenzuola erano umide sotto il suo volto, sentiva la bocca impastata, la testa le pulsava e gli occhi le facevano male. Da quanto tempo era in quella posizione? Tre ore, forse... Due, due e mezza?
Era tutto nebuloso, l'universo stesso lo era diventato, quasi machiavellico. Era così difficile capire, vivere, scontrarsi con la realtà, con il passato. Presente, passato e futuro, cos'erano veramente?
Aveva un groviglio nella testa, lei lo aveva un futuro? Lo avrebbe anche solo potuto immaginare?
Se pensava ad un ipotetico domani non vedeva niente di concreto. Buio totale, assenza.
Era come se non le fosse permesso di vivere la sua vita, come se fosse costretta a subire sempre, reclusa nella parte della vittima, era condannata a vedere il mondo solo per metà, il lato oscuro della mente umana.
Era terribile.
Aveva fatto affidamento sulla possibilità di cambiare vita, di poter vivere come tutti gli altri, libera dalle catene che la imprigionavano, ma si era sbagliata. Konoha non le aveva donato ciò che sperava, ma non era colpa di nessuno se le cose stessero precipitando così disastrosamente.
I suoi incubi peggiori la torturavano, l'avrebbero inseguita ovunque, l'avrebbero scovata in ogni anfratto di mondo in cui avrebbe deciso di rifugiarsi.
Aveva pianto per tutta la durata della telefonata, incapace di articolare una frase di senso compiuto, o anche solo un pensiero concreto. Non c'era da stupirsi, del resto la debolezza di carattere era una sua caratteristica.
Era rimasta in silenzio, mentre la voce metallica dall'altra parte del telefono la trafiggeva con crudeltà, incurante come sempre delle sue emozioni, o anche solo del suo essere una persona come tutte.
Non aveva anche lei diritto ad un po' di dignità? Perché le veniva sottratta così indebitamente?
Era una vittima sacrificale per le parole e i gesti di quell'uomo, di colui che una volta definiva "l'uomo della sua vita".
Non si sarebbe liberata di quel senso opprimente di solitudine e tristezza, trasferirsi a Konoha non era stato altro che un placebo che aveva finito per peggiorare la sua situazione.
Era in gabbia, stretta al muro.
Soffocava.

**

Erano quasi le 21:00 quando aveva sentito la porta principale aprirsi per poi chiudersi pochi istanti dopo. Sapeva benissimo che ad uscire di casa era stata Sakura per andare a lavorare al bar, ma lo stesso, uscito dalla sua stanza nella quale si era chiuso ermeticamente, si era affacciato alla finestra del soggiorno ed aveva puntato gli occhi sulla figura esile della ragazza.
L'aveva guardata andare via di spalle fino a quando gli era stato possibile. I suoi capelli rosa erano stati come un faro in mezzo al traffico e al grigiore della città di Konoha, non era stato difficile inquadrarla. Tutta la sua figura splendeva di luce propria, nonostante fosse indebolita e smorzata a causa di un passato (e probabilmente anche di un presente) difficile.
Sasuke aveva chiuso la finestra ed aveva scosso la testa, incredulo, sconcertato ed irritato per i suoi stessi pensieri.
Avrebbe potuto origliare quella chiamata, non sarebbe stato difficile, ma era come se fosse stato confinato nella sua stanza dalla sua stessa mente.
Aveva passato la vita a creare delle barriere alte e fortificate intorno a sé, erette per allontanare chiunque cercasse di avvicinarsi troppo a lui, non voleva di certo distruggerle per una ragazza che nemmeno conosceva.
Eppure sentiva che nel suo ragionamento qualcosa non quadrava, come se ci fosse un tassello fuori posto, che montava male nell'insieme. Era una questione spinosa quella, per cui aveva deciso di non pensarci troppo, spostandosi da lì e sedendosi al tavolo della cucina con una sigaretta tra le dita.
A breve anche lui sarebbe dovuto uscire per recarsi nello stesso bar in cui era diretta lei, quindi aveva deciso di prendersi quegli istanti di quiete per organizzare le idee e analizzare bene la situazione.
Seppur cercasse con tutte le sue forze di dimenticarlo, il nome della città di Sakura, Otawa, riverberava nella sua mente con violenza. Ma a quale scopo? Cosa avrebbe dovuto fare, lui?
Piuttosto si sarebbe dovuto concentrare sull'esame imminente del professor Hatake, al quale mancavano solo due giorni scarsi, e non perdere tempo con problemi e affari che non lo toccavano minimamente.
E poi c'era Naruto. Quella figura che poche ore prime in quella casa era decisamente di troppo. Parlava con lei, e lei rideva delle sue battute, gli offriva da bere, si mostrava vulnerabile ai suoi occhi.
Poteva dirsi ferito? Ferito del fatto che Naruto sapeva cose del passato di Sakura che a lui non era concesso conoscere? Si poteva definire arrabbiato del solo fatto che in poche ore probabilmente Naruto aveva conosciuto la vera Sakura, cosa che lui cercava di scoprire attraverso indizi e oggetti sparsi per casa?
Magari l'Uzumaki gli aveva semplicemente chiesto di parlargli di sè, e lei gli aveva detto di provenire da Otawa, mentre lui, quella particolare informazione, l'aveva scoperta di nascosto, infiltrandosi nella sua camera come un ladro.
Era ferito, sì. Da lei e da lui, ma anche da se stesso e dai suoi stessi pensieri e riflessioni.

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