19. Inaspettato.

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L'aria frasca mi pizzicava la pelle del viso e la punta del naso, facendo rabbrividire tutto il mio corpo; la panchina di ferro su cui ero stancamente seduta, gelida anch'essa, non faceva che rendere quei dieci minuti ancora più estenuanti.
Ero al parco, quello vicino al grande viale e alla pasticceria, e puntando gli occhi verso la tenue luce solare - che di lì a poco sarebbe scomparsa, scortata dalle dee della notte verso le tenebre - mi sembrò di tornare indietro nei miei ricordi.
I miei occhi si schiusero, e per un momento mi convinsi che, una volta riaperti normalmente, guardando qualcosa che non fosse stato accecante, sarei riuscita a guardare veramente, quel qualcosa.
Sarei magari riuscita a cogliere le crepe della vernice ormai vecchia e scrostata della panchina su cui ero seduta, i fili d'erba che si sovrapponevano disordinati.
Ma quando spostai lo sguardo, non accadde nulla.
O forse accadde proprio questo: il nulla.
Quel nulla impensabile e inesistente, semplicemente qualcosa che non è.
E i miei occhi avevano il potere di guardare questo, il nulla.
Quelle ombre scure che rappresentavano tutto ciò che mi circondava, offuscavano i miei occhi - e la testa e il cuore.
Mi sembrava di essere uno di quegli uomini nel mito della caverna di Platone - incatenati tutta la vita -  costretti a guardare quelle ombre che credevano fossero la realtà.

Ritornando con i piedi per terra - cercando di non immaginare più quello che avrei voluto fare e che (per uno scherzo del destino, forse) non potevo - fischiai.
Fischiai come mi aveva suggerito la signora Millan, qualche giorno prima.

"Fischia più che puoi" aveva detto piano, "lei arriverà", aveva poi continuato orgogliosa; "è abituata, deve solo imparare a riconoscere la tua voce. So che non si dovrebbe fare, ma portala al prato e lasciala correre, poi fischia: lei tornerà in un batter d'occhio."

E così accadde.
Fischiai, e lei arrivò.
Abbaiò due volte e mi mise il muso sulla mano, appoggiata sul mio ginocchio sinistro.

"È una gran giocherellona, le piace correre e saltare. Ma più di tutto le piace stare vicino alle persone.
In tutti i miei anni di esperienza non avevo mai conosciuto qualcuno di così tenace e coraggioso come lei, non avevo mai conosciuto una cagnolina con così tanto cuore.
Sarà stato un caso, o decisamente no, che lei sia capitata proprio a te: avete lo stesso immenso cuore."

"Dove sei stata, piccolina?" Parlai piano e dolcemente, continuando ad accarezzarle il muso.
Lei di tutta risposta si strofinò più forte contro la mia mano.

Improvvisamente, come una valanga, qualcuno si fiondò su di me e sulla mia piccola cagnolina. Il bastone mi cadde di mano e per un secondo mi sentii persa. Genny però mi si riavvicinò in modo rassicurante, facendo risuonare nella sua gola un piccolo abbaio.

"Oh cavolo, Max! Lascia in pace quella cagnolina!" Sentii dei passi avvicinarsi a noi e alzai involontariamente lo sguardo, sorprendendomi di come quella voce mi suonasse così familiare pur essendo poco riconoscibile,  data la lontananza.
A quel nome - Max - il mio cuore fu come se stesse per cedere: era passato veramente tanto dall'ultima volta che lo avevo sentito pronunciare. Nonno Max.
Genny vicino a me muoveva la coda in modo amichevole, ma toccandola la sua tensione era evidente.
Un altro muso, più piccolo e appuntito, si intrufolò nella mia mano, rimasta esattamente nella stessa posizione dopo il piccolo urto.

"Ehi ciao piccolino, mi hai spaventato un pochino, lo sai?" Parlai con il piccolo cagnolino dal pelo ispido che mi stava slinguazzando la mano e i leggins, all'altezza del ginocchio.

Mentre ero impegnata ad accarezzarlo - il viso rivolto verso di lui e un sorriso accennato sul volto - due mani sfiorano le mie tirando su delicatamente il piccolo cane e spostandolo poco di lato.
Una sensazione di calore percorse la mia pelle, mandandomi un piccolo brivido su per la spina dorsale.
Perché?

No Matter [h.s.]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora