Lezioni di Pubblico Servizio Sanitario

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Signorina la prego di aspettare qui".


L'infermiere mi stava spingendo dietro, mentre io cercavo di passare.


Non capivo ancora bene cosa stesse succedendo. Era tutto così veloce.


C'era così tanto trambusto negli ospedali. C'era sempre così tanta gente.


Un attimo prima eravamo a casa.


Stavamo cenando e ad un certo punto mi ritrovaai per terra.


Ci misi un po' a realizzare cosa fosse successo.. Papà aveva rovesciato il tavolo addosso a mio fratello perché lui aveva risposto al telefono.


Papà era ubriaco. Di nuovo.



"La prego mi dica almeno come sta" intimò mia mamma piangendo.


Eravamo entrambe ancora un po' sporche, così l'infermiera ci portò degli altri vestiti. Cercai di non pensare di chi sarebbero potuti essere quei vestiti. Anzi, non mi venne neanche in mente.


Ero scioccata.


Stavolta papà aveva esagerato. Non era mai arrivato a questo.


Imad era finito sotto il tavolo, probabilmente era svenuto. Non lo so. I miei ricordi erano confusi.


"Signora deve aspettare qui, le faremo sapere appena sapremo qualcosa".


Il paramedico, o barrigliere come penso dovremmo chiamarli, aveva detto che la gravità della situazione dipendeva da quanto forte avesse battuto la testa.


Arrivate in ospedale, ci avevano detto fosse in rianimazione. Qualcosa non andava.


Mia mamma non potevamo far altro che aspettare. O andare a pagare la cauzione per mio padre, visto che, insieme all'ambulanza arrivarono i vigili, che lo arrestarono.


La sala d'attesa dell'ospedale era un posto cupo, ma allo stesso tempo luminoso.


Le luci dell'ospedale erano forti e di un bianco accecante, ma le parete erano dipinte di un azzurrino cupo.


Non so perché, ma quell'azzurro mi faceva pensare alle sale in cui fanno le chemio nei film.



"C'è qualche famigliare per Imad Boutaghrar?".. Una voce interruppe i miei pensieri. Era una donna, un'infermiera supposi dal camice bianco.


"Ssi.. Noi" risposi io alzandomi.


"Si è svegliato, potete entrare" ci avvisò. Mi guardò facendomi un sorriso sincero. Era la prima persona in quell'ospedale che non emanava da tutti i pori odio per quel posto, che fosse da qualche parente malato o fosse il suo posto di lavoro.


Entrammo nella stanza. 416. Lo ricordo benissimo quel numero impresso sulla porta biancastra della stanza d'ospedale.


Lui era disteso sul letto, aveva un piede fasciato tenuto fermo da due aste laterali.


La mano destra era anch'essa fasciata, mentre la sinistra sembrava intatta.


Aveva una benda che li copriva metà faccia e dei fili e tubi infilati nel suo braccio sinistro.


Poi c'era un tubo più grande infilato nel suo addome.


L'infermiera che stava sistemando la flebo, vedendomi fissarlo mi spiegò che serviva per evitare si creasse un ematoma nell'addome, in quanto ci era un lieve emoraggia.


La donna mi rivolse un ultimo sguardo, quasi a domandarsi chi avesse potuto fare una cosa del genere ad un ragazzino. Me lo chiedevo anche io. Poi ricordai che padre avessi.


Da quando ero entrata mia mamma non si era ancora staccata da mio fratello.. Era scoppiata in un pianto sonoro, mentre mio fratello cercava di consolarla, nonostante qualsiasi movimento facesse gli provocasse una smorfia di dolore.


"Nadia" il mio nome uscì dalla sua bocca con fatica, sembrava non riuscisse a respirare. Aveva la stessa voce che si ha quando si tenta di parlare con qualcuno che ti schiaccia la pancia.


"Dimmi Imad" rrispos avvicinandomi a lui.


Mi chiese di passargli un bicchiere d'acqua, ma non feci in tempo a riempirglielo che cominciò a sentirsi male.


Quella notte mio fratello vomitò così tanto sangue che l'infermiere disse che oramai c'era più sangue di donatori che quello suo reale.


Alle cinque di mattina, Imad andò in arresto cardiaco. Venne operato d'urgenza, ma l'intervento andò a buon fine.


Una settimana dopo Imad poteva tornare a casa.


Io e mamma gli preparammo una bella postazione nel salone di casa e, constatato stesse bene chiamammo anche Omaima e Jawad, gli altri due miei fratelli, che erano andati in Marocco la settimana prima.

Il 15 Agosto, una settimana dopo il ritorno di mio fratello a casa, eravamo tutti in salone.
Stavamo mangiando e Jawad e Omaima scherzavano su quante festicciole Imad si stesse perdendo a stare sdraiato in salone.
Lui faceva finta di arrabbiarsi, ma lo sapeva che tutti eravamo coscienti che il suo passatempo era la play station. Che avesse una vita socialmente utile era il nostro sogno.
Qualcuno bussò alla porta e mentre Jawad si alzò ad aprire, io versai l'acqua a Omaima.
Sentii una voce maschile dall'altro lato della porta, poi vidi Jawad tirare un pugno.
Era papà.
"Non ti permettere mai più a mettere piede in questa casa" urlo Jawad mentre continuava a sferrare pugni.
Io non feci nulla per fermarlo, ero lì immobile a fissargli.
Mamma e Omaima cercavamo di dividerli e così anche tutti i vicini che erano venuti in soccorso.
In questo casino nessuno si accorse di un lamento alle nostre spalle.
Fu troppo tardi quando sentimmo un tonfo.
Ci girammo tuffi e trovammo Imad per terra.
Probabilmente aveva cercato di alzarsi ed era caduto.
Non servirono né l'ambulanza che arrivò dopo ben mezz'ora, né le ore e ore di rianimazione.

Mio fratello morì alle 19:43 del 15 Agosto 201* per un infezione addominale.
Durante l'operazione subita la sera della lite con mio papà, un infermiere di sala operatoria, il quale faceva il secondo turno di fila, si era distratto e aveva dimenticato una garza nell'addome di mio fratello.
In tribunale si giustificò dicendo che erano le cinque di mattina ed era al secondo turno. Aveva deciso fosse inutile contare me garze per verificare ci fossero tutto e nessuna fosse rimaste nel paziente.
Mio padre finì con un naso rotto e, successivamente, in prigione per aggressione su minore e maltrattamento.

Nella mia famiglia nessuno ne uscì sano.
Nessuno si riprese del tutto.
Avevamo perso l'anima della famiglia.
Mio fratello non c'era più.

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