Prologo

622 61 26
                                    

La mia più grande paura è quella di condividere il destino della figura mitologica da cui ho preso il secondo nome.

Perché ho imparato che le parole sono importanti, hanno un sapore, un odore e un colore esattamente come le emozioni. Le parole hanno un peso, come dei macigni. E per i nomi è ancora peggio, perché sono come un'etichetta che ci viene appiccicata addosso dalla nascita.

Si dice che il nostro nome indichi anche il nostro destino. Chiedetelo a mia madre. E il destino di Pandora, beh ... È stato una vera e propria calamità.

D'altro canto quando la tua vita è un continuo scappare da esseri sovrannaturali che vogliono ucciderti, una domanda ricorrente sorge spontanea: qual è lo scopo della mia nascita? Quel è il mio ruolo su questo pianeta? Il fine ultimo della mia vita è davvero soltanto scappare, senza poter sperare in una stabilità fisica e spirituale? E allora è meglio questo o sapere che, in un momento ben preciso, avrai il tuo ruolo nel cosmo causandone la distruzione?

Di certo Pandora aveva avuto una fortuna in più: aveva conquistato tutti, ma proprio tutti. Nessuno voleva farle del male. Lo stesso non si può dire di me. A me danno la caccia in migliaia, per rapirmi, usarmi e nutrirsi del mio sangue.

Quando ero piccola mio padre mi portava tutti i giorni al parco. Trascorrevo lì intere giornate e qualche volta ci andavo anche quando pioveva. I miei genitori erano molto pazienti con me, poche volte mi dicevano di no. Di tutte quelle giornate trascorse al parco ne ricordo una in particolare. Faceva caldo, erano i primi di Marzo, e avevo sei anni.

Ricordo ancora il mio abbigliamento di quel giorno, il cappottino verde e gli stivaletti rossi. Tenevo in mano il sacchetto con dentro le molliche di pane da dare agli uccelli del parco.

Appena oltrepassato l'ingresso avevo iniziato a correre,ignorando i richiami dei miei genitori. Sentivo che mi dicevano di rallentare,perché altrimenti sarei caduta, ma non ero mai stata molto obbediente.

Proprio quando mio padre stava per afferrarmi,ero inciampata nel terreno sassoso. Per la caduta il pantalone si era rotto sul ginocchio e da una ferita piuttosto profonda era uscito del sangue.

Ricordo ancora mio padre che mi solleva tra le braccia, che corre seguito da mia madre, noi che facciamo irruzione nell'albergo e prendiamo il necessario, prima di lasciare la città.

Perché sangue come il mio può essere sentito a chilometri di distanza. È come un segnale che si espande nell'aria, un richiamo potentissimo. Un po' come le api che vengono attirate dal miele o, più semplicemente, le vespe dal panino con affettato che si mangia in spiaggia.

E nello stesso modo in cui le vespe sono in grado di pungere per ottenere di appollaiarsi sul panino e sgranocchiare indisturbate quella carne, così le Creature che mi danno la caccia desiderano infilare i loro denti nella mia pelle e nutrirsi di ciò che scorre al di sotto. E loro non possono essere fermate. È di questo che dovrei avere paura. Eppure il pensiero del mito di Pandora e del perché abbiano scelto proprio il suo nome per chiamare quelle come me non mi dà pace. Ma forse, voglio sperare, siamo soltanto noi gli artefici del nostro destino.

PandoraDove le storie prendono vita. Scoprilo ora