Alexandra ed io continuammo a lavorare su quel progetto per altri quattro pomeriggi ed ogni volta eravamo sempre più in sintonia, chiacchieravamo, scherzavamo, la sera, quando ognuno era a casa propria, ci inviavamo alcuni messaggi; la sua figura, o meglio, quella che credevo fosse lei, di volta in volta si sfaldava e tutti quei difetti che noi - ragazzi che non avevano niente a che fare con sport o chearleaders - le avevamo attribuito si trasformarono, una gran parte, in pregi o, per lo meno, in fattezze umane. Durante gli ultimi due pomeriggi furono più i minuti che trascorremmo giocando che quelli in cui ci demmo da fare. Mi raccontò di lei, del fatto che sognasse divenire una giornalista, del suo amore per un gruppo musicale, della sua difficile relazione con Thomas e di tanti altri dettagli che in un certo senso la tormentavano o caratterizzavano… non avrei mai pensato che la mente delle ragazze potesse essere traviata da così tanti pensieri, molti dei quali erano preoccupazioni inutili. Rabbrividii in più occasioni, durante i nostri dialoghi, pensando che mia sorella sarebbe un giorno divenuta così complessa. Al suo contrario però io non mi aprii anzi, mi chiusi ancora più in me stesso, se possibile. Non volevo essere compatito, non volevo mostrarle un lato di me così tanto vulnerabile; lei, alla ricerca perpetua di un 'figo' - sinonimo di un Thomas -, avrebbe solamente disprezzato un ragazzo fragile. Perché si, il suo giudizio contava assai per me dal momento in cui mi trovavo molto attratto dalla sua persona, in senso fisico e non. E forse avevo fatto bene…
Infatti dal giorno stesso in cui consegnammo i problemi lei prese ad ignorarmi, pesantemente; se mi incontrava alzava gli occhi al cielo, se mi scorgeva da lontano cambiava direzione, se sentiva il suono della mia voce durante una lezione… beh, alzava gli occhi. Nel giro di poche settimane Alexandra Monroe tornò ad essere un'estranea, un modo a parte, con l'unica differenza che non rappresentava più un incognita per me: sapevo i meccanismi che le scattavano in mente, dove i suoi pensieri confluivano, i suoi timori, i suoi complessi, il fatto che desiderasse disperatamente avere un seno più abbondante e che desiderasse perdere qualche chilo. Eppure l'ammiravo per riuscire ad essere impenetrabile, non c'era una critica o un giudizio altrui, positivo o negativo, che non le scivolasse addosso. Io invece ero una spugna, pregna dell'astio, dell'odio e perfino del dolore che portavo in cuore.
Un giorno però s'imbatté in me a mensa e mormorò qualcosa d'affine ad un saluto, io la fulminai con lo sguardo spingendola ad allontanarsi. Quello fu l'unico contatto che avemmo.
Il ricordo era ancora vivo tuttavia, cercando di trattenerlo, decisi che era giunta l'ora di tornare alla mia vecchia vita, quella in cui mi svagavo, passavo le notti fuori ad ubriacarmi con i miei amici, giravo per locali e facevo sesso con ragazza che mai avrei rivisto. Max ed Austin, i quali inevitabilmente erano venuti a conoscenza dell'incidente, mi furono d'aiuto. La prima sera che uscimmo non mi divertii affatto anzi, l'idea di trovarmi in una discoteca quando mia madre non era sveglia a casa ad aspettarmi preoccupata come una volta soleva essere, mi fece sentire male con me stesso; la seconda andò sicuramente meglio, la terza fu un vero delirio. Ci ubriacammo all'inaugurazione d'un locale nuovo e, essendo brillo, riuscii a perdere il controllo: la nottata la terminai dopo essermi intrattenuto in macchina con una bella ragazza tedesca, che con i suoi capelli biondo platino e gli occhi verdi mi ricordava una Barbie. Presi coscienza del fatto che per andare avanti era necessario smettere di pensare e l'alcool era l'unico mezzo a me disponibile per perdere la ragione.
Le giornate dunque le trascorrevo fra la scuola, di tanto in tanto facevo i compiti in compagnia di qualche compagno, ed i locali; entravamo in una discoteca o in una birreria alle dieci o undici di sera e ne uscivamo alle cinque del mattino - qualche volta perfino alle sei - con qualche ragazza sbronza ed una forte emicrania. Qualche volta non andavo neppure a scuola.
A casa l'aria era tanto pesante ed era inevitabile che io cercassi disperatamente di ridurre al minimo il tempo lì dentro; Hannah perseguitava a non parlare, forse perché non aveva niente da dire, oppure perché non voleva dire alcunché, ad ogni modo si ostinava a tacere. Nostro padre non aveva idea di come interagire con nessuno dei due, e così l'assenza di nostra madre si percepiva di più. Nostra nonna invece, avvilita, avrebbe saputo come fare ma, ahimè, con la morte di sua figlia, aveva perso tutte le forze. Vederla in quello stato, ridotta pelle ed ossa, consumata dal dolore, taciturna, mi rattristava… più passava il tempo, più si rendeva conto che sua figlia era lontana. Si era trasferita a vivere con noi, in una stanza vicino al salone, e nel sonno mormorava il nome di mamma di tanto in tanto… « Scarlett, Scarlett… Sc..». Una sera si sforzò di affrontare l'argomento del lutto dicendomi che era innaturale assistere alla morte d'un proprio figlio. Aveva ragione. Ogni mattina si recava al cimitero con un mazzo di fiori belli e coloriti, li sistemava in u vaso e s'intratteneva a parlare con la fotografia affissa sulla lapide. Io non ero stato abbastanza coraggioso da andarci.
L'anno scolastico dunque iniziò con la perdita di una figura così importante nella mia vita, un'amica con cui mi divertivo e con una sfilza di insufficienze a scuola, tutto merito delle nottate. E se ogni tanto la malinconia mi sopraffava o se cadevo in preda alla nostalgia, afferravo la chitarra ed iniziavo a strimpellare…
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L'ULTIMA OCCASIONE (completo)
Teen FictionÉ quando meno te lo aspetti che il mondo decide di caderti addosso. La vita di Jake si trasforma in un attimo nell'Inferno. Non ha via di scampo. É sicuro di aver perso tutto, é sul punto di cedere... Poi incontra Alex. © 2014 Virginia della Torre...