Diciassettesimo Capitolo

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É incredibile come le cose possano cambiare in poco tempo; non avrei mai pensato che le emozioni potessero appassire così in fretta, che potessero dissolversi nell'aria dalla sera alla mattina senza lasciare alcuna traccia e al loro posto rimane il vuoto, quello cosmico

Tra me ed Alex le cose si erano improvvisamente gelate e non eravamo più noi. Così, una mattina, c'eravamo alzati dal letto con un grande eco nel cuore e nel pomeriggio stesso ci lasciammo. Quella mattina, senza un motivo preciso, scomparve anche l'ultima ragione per cui continuavamo a frequentarci e stare insieme non aveva più senso: in fondo, l'Alex ed il Jake di qualche mese prima non c'erano più e noi non fummo in grado di ritrovarli per tempo. La goccia che fece traboccare il vaso fu l'ultimatum - se così si può definire - che Ashley e le altre ragazze cheerleaders le diedero il ventotto febbraio: non poteva più allenarsi con loro, esatto, una sfigata non poteva essere il capitano. Che dire? Quanta meschinità e quanta superficialità. Avrebbe dovuto tornare ad essere come 'prima' per continuare a far parte della squadra e lei, ad ogni modo, non sarebbe stata in grado di dare un taglio così netto alla sua esistenza - e non la biasimo affatto - perché quello in fin dei conti era l'ultimo legame che le era rimasto con il suo passato. Quella sera saremmo dovuti andare alla cena di compleanno di Austin ma lei mi disse di non sentirsi bene e dunque preferì rimanere a casa sua; il mattino seguente, la mattina fatidica, avvenne tutto il resto ma ad essere sinceri anche io ero giunto all'idea che sarebbe stato meglio intraprendere cammini diversi. Ci incontrammo nel cortile, all'uscita, e fu lei a prendermi da parte, aveva gli occhi lucidi; raggiungemmo un angolo deserto del cortile, nascosti dietro un muretto di mattoni rossi ricoperti quasi interamente dal cemento, e ci facemmo coraggio a vicenda. All'inizio esitammo a parlare in quanto, non ostante sapessimo entrambi quello che avevamo da dire, fummo intimoriti da ciò che l'altro avrebbe detto. Da gentiluomo lasciai a lei per prima la parola. « Sei la cosa migliore che mi potesse capitare » premise, « ed io… n-non credo di meritarmi una p-persona speciale come te ». Ecco: questa fu la scusa ufficiale; mi irritai un po', credevo fosse più dignitoso e corretto nei confronti dell'altro dire la verità, ma tacqui. Con la voce tremula proseguì pronunciando una frase banale e scontata che mi fece incollerire ulteriormente: « non sei tu, sono io. » Allora parlai io cercando di rimanere il più temperato possibile. « Credo sia meglio finirla qui! » esclamai con tono solenne, « non sono e non sarò mai alla tua altezza. Non sono abbastanza stronzo, non sono superficiale e neppure falso quanto basta per appartenere al tuo mondo ma sono stato stupido abbastanza per credere che tra noi potesse nascere qualcosa » le dissi tutto d'un fiato sicuro che la frase avrebbe reso lo stesso effetto che desideravo ottenere; gli occhi le si gonfiarono di lacrime, lucidi e splendenti come perle, e le si formò anche un nodo alla gola ma si sforzò di tirare fuori la voce. « Ed io, io invece sono stata troppo ingenua per aver creduto che qualcosa fosse nato fra noi e troppo cogliona per averti messo prima di tutto e tutti! » singhiozzò, « e forse non sarai stronzo ma sei una vera merda e non so cosa sia meglio! » aggiunse. Non appena finì di urlare capii che forse avevo esagerato un po' troppo ma oramai era comunque tardi per fare un passo indietro. Si voltò, in silenzio, e si allontanò trattenendo quel fiume di lacrime che ben presto andò a versare nascosta negli spogliatoi femminili dell'istituto. La vidi andare via seguendola con lo sguardo passo dopo passo ma solo nel momento in cui non riuscii a scorgerla più realizzai quanto era appena successo, non so proprio da cosa fosse stata scaturita tutta quella cattiveria che avevo gettato fuori… lì per lì non fui in grado di comprendere quanto madornale fu l'errore che avevo commesso lasciandola andare via, ma ben presto ebbi modo di rendermene conto e di pentirmi di ogni singola parola che le avevo detto... 

I giorni seguenti furono assai infernali, avrei voluto potermi chiudere in camera mia e restarvi per giorni finché anche l'ultimo cenno di sofferenza non fosse svanito ma non potei perché ero giunto ad una fase pre-finale dell'anno scolastico e quell'anno mi sarei dovuto diplomare e fino a quel giorno avevo appreso poco e niente dei nuovi programmi; è vero, vi avevo detto che non mi sarebbe importato di perdere l'anno ma arrivato a questo punto non c'era cosa che potessi bramare di più che diplomarmi e scappare da quel tugurio di città. Fra i miei compagni c'era chi addirittura aveva già fatto domanda a diverse università, io invece non sapevo neppure cosa avrei voluto fare della mia vita. Mi dovetti concentrare dunque sullo studio e dare il tutto per tutto, il che non fu affatto complicato visto che studiare era l'unico modo per distogliere l'attenzione dalla realtà. Marzo fu caratterizzato da una sfilza di bei voti che rallegrarono mia nonna, la quale aveva temuto seriamente che non ce l'avrei fatta; a scuola io ed Alex tentavamo di evitarci il più possibile, vederla mi portava alla mente dei ricordi che a loro volta si portavano dietro dei rimorsi e dei rimpianti, proprio per questo ritenni necessario qualche volta pranzare nel cortile o nella biblioteca dell'istituto per non incontrala. Riuscii a recuperare tutte le materie: un miracolo! Per le prime settimane comunque sopravvivere mi risultò abbastanza facile in quanto fui aiutato dai miei migliori amici che appena avevano un secondo libero facevano anche l'impossibile pur ch'io mi distraessi, il problema sopraggiunse dopo quando non ebbi più neanche la voglia di uscire  e di divertirmi. Fu quasi come tornare indietro nel tempo e riaprire un capitolo polveroso che credevo morto e sepolto in un meandro lontano della mia mente, un capitolo difficile e doloroso che speravo fosse stato superato; fu quasi come il risveglio di un lontano e misterioso timore:  quello di essere abbandonato. Il mio animo infatti - perché dire cuore sarebbe troppo limitativo - si colmò nuovamente di sentimenti a lui già noti come la nostalgia ed il terrore; si sta ripetendo ancora una volta, pensavo, sono solo. Di nuovo. La solitudine è la condanna peggiore a cui un uomo può essere sottoposto, la paura di svegliarsi in un mondo ostile senza alcuna faccia amica e più profonda e più grande della paura del buio o di qualunque altra pena; Alexandra aveva rappresentato per me una figura importantissima nei mesi addietro, lei era stata fondamentale perché io mi potessi riprendere da quel trauma che avevo avuto, senza di lei non ce l'avrei potuta fare; la sua dipartita quindi non fece altro che riportare alla luce una ferita assai profonda che ancora non si era rimarginata, questa così si riaprì e divenne una voragine. La sera del ventidue marzo, un venerdì sera, raggiunsi il massimo livello di sopportazione, non potevo più tenere quell'immenso abisso tutto dentro e così presi la dura decisione di fare un passo indietro, un passo importante, forse madornale: andai incontro alla mia stella. Mi sembrò quasi come fare un salto nel passato, eppure ad ottobre non c'era sera che trascorrevo senza rivolgermi a lei… ero cresciuto da allora e non solo fisicamente, bensì avevo subito una crescita totale che comprendeva il cambiamento  fisico tanto quanto quello morale, quello di vedere il mondo e perfino quello di soffrire. Non ostante la primavera fosse allora prossima ricordo che quella sera fece particolarmente freddo e che la sedia era coperta da una sottilissima lastra di ghiaccio; il cielo era un mare infinito di piccole lucine ma ai miei occhi ne brillava solo una, può sembrare assurdo eppure sentivo di appartenere a quella stella. Più la guardavo, più mi sentivo sollevato, era come se quell'astro riuscisse ad infondermi la forza di andare avanti. Sebbene io abbia ben chiara e nitida l'immagine di quella notte non ricordo quanto tempo trascorsi su quel terrazzo, ma so che in fondo mi fu necessario e che forse mai e poi mai il tempo passato sotto quella magnifica volta avrebbe potuto bastarmi. Sentii la necessità di raccontarle tutto quello che avevo vissuto in quei mesi senza tralasciare alcuna emozione, decisi di aprirmi con l'immagine figurata di lei, la stella, e riuscii ad esprimermi nel medesimo modo in cui io e lei, fino a qualche anno prima, comunicavamo: con la mente; pensavo a tutto ciò che era accaduto e nel contempo la fissavo quasi come se ci fosse un filo sottile per il quale i miei pensieri viaggiassero fino a lei. E mi sentii molto meglio. E poi, quando la notte fu nel pieno della sua intensità e la luna della sua maestosità, avvenne un fatto inaspettato… dapprima sentii il rumore di qualche passo e dopo scorsi mia sorella in piedi accanto a me: indossava una vestaglia da notte e sopra un cappotto di nostro padre. 

« La vedi anche tu? »

« chi? »

« mamma » rispose con un filo di voce, « è in cielo, da qualche parte. Lo lo so » sospirò. 

Si sedette sulle mie ginocchia, le strinsi le mani alla vita ed incastrai il mio collo con la sua spalla; da quanto tempo era che io e mia sorella non ci abbracciavamo? Da troppo. Eppure, sin da piccoli, eravamo stati entrambi assai fisici ma evidentemente era un'abitudine che avevamo perso nel corso degli ultimi mesi. Ero stato un cattivo fratello, uno pessimo, avrei dovuto proteggerla, avrei dovuto fare di lei la mia ragione di vita proprio come mamma ne aveva fatto di noi due ed invece ero stato capace unicamente di trascurarla. Che gran fratello! 

« la guardi spesso? » le chiesi

« tutte le sere » rispose con un tono talmente tanto sottile da farmi percepire quanto stesse soffrendo in quell'istante, mi venne la pelle d'oca. « Lei ci guarda » aggiunse, non fu una semplice affermazione bensì una specie di domanda, aveva bisogno di essere confortata. Annuii e la strinsi ancora più forte a me, il mio angelo. Rimanemmo lì per un lasso di tempo che mi parve infinito e nessuno dei due ebbe il coraggio - o la forza - di dire qualcos'altro, o forse semplicemente non ne sentimmo il bisogno: eravamo più uniti che mai e sapevamo di non essere soli, anche solo l'idea che nostra madre ci stesse guardando bastò a tranquillizzarci e a darci la speranza che magari un domani, un lontano domani, l'avremmo puntuta rincontrare in quel cielo. E sembrerà strano, o banale a dirsi, ma nessuno era mai riuscito a trasmettermi tanto amore quanto fece mia sorella quella volta; l'empatia che si creò fra noi fu un qualcosa di veramente magico e, cosa più importante, durò nei giorni… diventammo complici, migliori amici e molto altro ma, al primo posto, fummo fratelli, fratelli veri.  Di lì a poco anche marzo volse al termine e dovetti dare tutto me stesso per superare il Senior Year, il quarto; non si trattava solo del rendimento scolastico - anche se pure quello non fu cosa da niente - ma di tante altre piccole e grandi cose quali la scelta dell'università: dove andare? Cosa studiare? In quale città? Mio padre non mi fu affatto d'aiuto - come al solito - e così dovetti affrontare anche quella scelta tanto difficile tutto da solo; se ci fosse stata ancora mia madre tutto sarebbe risultato più semplice e non avrei avuto problemi ad orientarmi per il futuro ma non c'era ed era tempo di rassegnarsi. Non sapevo cosa avrei voluto fare negli anni e temevo di prendere troppo sotto gamba la questione ed il rischio sarebbe potuto essere quello di ritrovarmi a quaranta anni vecchio, scontento del mio impiego e perfino depresso! Passai giornate intere in attesa di un lampo di genio e nottate alla finestra con la speranza che lei mi mandasse un segno, uno qualunque, ma niente; non avevo preferenze fra le materie e neppure ambizioni o desideri vari, tentavo disperatamente di visualizzare me stesso dieci anni dopo in modo da capire, in base a cosa avrei visto, la mia strada ma non fu facile. Una cosa però mi fu chiara anzi, chiarissima, sin dall'inizio: volevo scappare da Boston, una vera e propria evasione. Ne avevo abbastanza di quella città e di quella gente! Riponevo nel College tutte le mie speranze illudendomi che il mio futuro ed i miei prossimi studi celassero la chiave della mia contentezza, l'università dunque sarebbe stata la giusta scusa per fuggire.

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