Terzo Capitolo

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Nella vita ci sono persone belle anzi, bellissime… non in senso fisico, ma belle in assoluto: raggianti, solari, sagge, buone, forti… belle. Persone che quando sorridono illumino tutti coloro che li circondano, che animano le giornate con una parola, che rendono felici gli altri con un semplice gesto e che riempiono l'aria col solo suono della loro voce; persone tanto belle da divenire parte integrante di te, belle a tal punto da rendere gli altri migliori. 

E poi queste persone uniche se ne vanno, di punto in bianco, e tu inizi a spegnerti, così, attimo dopo attimo. Allora ti accorgi di quanto fossero indispensabili ed importanti; l'aria diventa silenziosamente vuota, le giornate infinite, il cielo cupo, il dolore etereo. Tutto acquista toni grigi diventando terribilmente triste. Capisci di non essere più migliore, ti senti solo, tanto solo, e acquisti la consapevolezza che hai perso un qualcosa di davvero prezioso, qualcuno che mai e poi mai potresti rimpiazzare. Ecco, mia madre era una di queste persone magnifiche, belle realmente. 

Non avevo mai compreso prima l'importanza della sua figura nella mia vita, era mia madre, mi aveva messo al mondo, mi aveva cresciuto, dunque la davo per scontata; non avrei mai immaginato che avrei potuto perderla, e forse avrei agito in modo diverso una miriade di volte se solo l'avessi saputo che se ne sarebbe presto andata. Ora che non c'era mi sentivo un pesce fuor d'acqua, un'imbecille come tutti coloro che non avevano avuto l'occasione di incontrare una donna così. 

Ero afflitto, sapevo che qualcosa s'era spezzato, ovvero il nostro legame. Cercavo di riempire le giornate interminabili uscendo con i miei amici, impegnandomi nello studio, coltivando degli hobby come suonare la chitarra; ne avevo trovata una in cantina di mia nonna, era di mamma… suonarla non solo riempiva quell'aria melensa e pesante, ma mi faceva sentire in qualche modo più vicino a lei. Era tutto ciò di cui avevo bisogno…

Un giorno, a scuola, mentre ero procinto a pranzare nella mensa della scuola, Alexandra Monroe si avvicinò al mio tavolo e mi disse che ci saremmo incontrati dopo l'orario scolastico per eseguire quel 'progetto': ci restavano solo quattro giorni per risolvere cento problemi. All'uscita l'aspettai alla mia auto, una vecchia Audi scassata color grigio scuro che mio padre mi aveva comprato qualche giorno prima, non ostante non avessi proprio voglia di vederla quel pomeriggio. Quando finalmente arrivò salì in macchina ed andammo a casa sua, parcheggiai nel vialetto e salimmo; in casa eravamo soli. 

« ti dispiace se mi vado a cambiare? »

« fai pure » mormorai

« puoi accomodarti in camera mia, la porta in cima alla scale » aggiunse mentre si chiudeva alle spalle la porta del bagno.

Raggiunsi la stanza, una camera abbastanza spaziosa con le pareti color celeste chiaro, un grande letto ed una lunga scrivania. Aveva qualche mensola bianca sparsa qua e là sulle pareti colma di libri, una porta bianca ed un grande televisore affisso al muro. Appoggiai la cartella sull'uscio, non feci in tempo ad accomodarmi che lei fece ritorno; si era cambiata d'abito, ora indossava dei jeans ed un maglione molto largo. Sorrideva. Mi invitò a sedermi accanto alla scrivania e prese un quaderno dalla sua libreria, si sedette sul letto a gambe incrociate ed iniziammo a calcolare. Di tanto in tanto osavamo leggere le tracce ad alta voce o ci chiedevamo aiuto reciprocamente, oppure concordavamo assieme i risultati, ma l'imbarazzo era assai e comunque era troppo evidente per essere negato. Trovai, ad ogni modo, quella situazione alquanto insolita, non pareva vanitosa od antipatica come a scuola, anzi, azzarderei definendola gentile… 

Un ora più tardi avevamo svolto gran parte del lavoro ed eravamo entrambi esausti, io non avevo avuto il coraggio di chiederle di interrompere dunque fu lei che ruppe quel silenzio tombale dicendo d'esser sfinita. 

« posso porti una domanda? » mi chiese, io mi limitai ad annuire. « Perché sei stato assente così tanto a lungo? »

« h-ho avuto problemi familiari » esitai a rispondere e lei lo notò. Ricadde quel silenzio imbarazzante che fu ben presto interrotto dallo squillare del suo iPhone, riposto sulla trapunta bianca accanto a lei. Alexandra volse lo sguardo allo schermo un paio di volte prima di afferrare l'oggetto e porgerlo all'orecchio, allora, prima che premesse il tasto per rispondere, mormorai « forse è meglio che io vada ». 

Lei si alzò subito dal letto e, traccheggiando al telefono rispondendo a monosillabi a qualunque domanda le stessero chiedendo, mi scortò alla porta d'ingresso in modo frettoloso. 

« allora ci vediamo domani » mi disse mentre chiudeva alle mie spalle la porta d'ingresso. Non feci in tempo a rispondere che era già sparita; lentamente mi accinsi a salire in auto ma, con la coda dell'occhio, prima di entrare nell'autoveicolo, notai la sua figura affacciata alla finestra di camera sua che mi guardava. Chiusi lo sportello e misi in moto, avevo voglia di stendermi a letto e non far nulla ma una parte di me avrebbe voluto salutarla in modo più decente. 

Quando giunsi a casa la mia famiglia - ovvero mia nonna ed Hannah - stava già cenando, mi sedetti con loro ed ingurgitai qualcosa. Nonna ci porse qualche domanda su cosa fosse accaduto quel giorno, parlando come se tutto fosse normale, ma sia io che mia sorella rispondemmo in modo evasivo, specialmente lei che rispose con piccoli gesti. Non voleva proprio parlare, la piccola… 

« caro, oggi ti vedo più allegro » commentò mia nonna mentre l'aiutavo a sparecchiare la tavola, mi limitai a sospirare ma il mio respiro fece eco nel silenzio della casa. « tuo padre vorrebbe portarvi fuori questo finesettimana » continuò, « dovresti dargli un'altra possibilità, Hannah lo sta facendo… a modo suo… »

« non mi sento bene. Vado a dormire » affermai con molta freddezza. 

Presi la chitarra ed iniziai a strimpellarla, da piccolo avevo preso delle lezioni di musica, ma essendo stanco mi coricai… pensai a lei, ad Alexandra, non so nemmeno il motivo. Forse perché l'avevo sempre vista su un altro piano, come fosse irraggiungibile, una Barbie, una bambola di porcellana, ed invece quel giorno aveva assunto caratteri umani. Mi aveva fatto piacere il fatto che avesse notato la mia assenza, che si fosse accorta che qualcosa non era andato per il verso giusto; spesso ero invisibile, mi era piaciuto esserlo, ma avevo apprezzato allo stesso modo che le si fosse accorta di me. 

L'ULTIMA OCCASIONE (completo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora