Sedicesimo Capitolo

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Era mattina, il cielo era coperto da una fitta rete di nubi grigie, faceva un gran freddo; era il nove gennaio, un martedì, per la precisione, ed io ero diretto verso scuola. Era presto, molto presto, ed il mondo era ancora addormentato. Da quando io ed Alex eravamo tornati da Cape Cod avevo preso l'abitudine di svegliarmi ogni mattina all'alba, quasi come in ricordo di quel momento magico che avevamo vissuto, ed una volta sveglio sorseggiavo un tazza di caffè, mi facevo una doccia fredda ed allo scoccare delle sei uscivo; camminavo per i terreni che costeggiavano casa mia fino a raggiungere un piccolo torrente, minuscolo a dire il vero, che sin da piccolo mi aveva affascinato. Contemplavo la natura, prendevo il mio tempo per riflettere: il mondo è bellissimo a quest'ora perché mentre tutti dormono la natura si anima, e tutti quegli scenari meravigliosi sono avvolti da un lenzuolo di nebbia e da una cupola di silenzio. Ero divenuto estremamente introspettivo, non infelice, ma introspettivo. Non che con Alexandra le cose non andassero bene, anzi, tra noi si era creato un forte legame e la nostra relazione era stabile: ci eravamo incontrati quotidianamente, una volta al cinema, un'altra al bowling con amici, un'altra ancora al parco…insomma si potrebbe dire che il nostro rapporto filasse egregiamente ma non ostante ciò in me albergava un sentimento di malinconia cronica che non sapevo né soffocare, né capire cosa lo scaturisse. Sebbene lei mi amasse ed io l'amassi in altrettanto modo, niente riusciva a contrastare quel sentimento, ad ogni modo però sono certo che la mia vita senza di lei sarebbe stata devastante, altro che oppressa dalla malinconia… Non posso dire che la relazione con mio padre fosse stabile allo stesso modo: lui assorto dal lavoro, io da tutto il resto. A malapena ci scambiavamo qualche parola a cena, un saluto al mattino o anche semplicemente uno sguardo e lo stesso avveniva con mia sorella che per quanto matura potesse essere non era di certo grande abbastanza da capire alcune dinamiche umane e così si rifugiava nel suo mondo, piangendo di tanto in tanto, addossandosi le colpe di quei silenzi che, talvolta, correvano anche fra di noi. Deprimente, lo so. L'unica davvero forte era stata mia nonna, quella povera vecchietta dotata d'un cuore d'oro, che, non ostante provasse un dolore lancinante, riusciva a soffocare le lacrime e a sostentare noi nipoti. Con lei le parole servivano a poco: uno sguardo e già sapeva cosa ci passasse per la testa quasi come riuscisse a leggere nei nostri occhi ciò che la mente vi aveva scritto sopra. Tuttavia mi mancava la sua allegria che, ahimè, era appassita del tutto e temevo il giorno in cui nonna avrebbe raggiunto mamma… non ci sono parole abbastanza intense per far cogliere il profondo significato della paura di perdere qualcuno, o peggio, come nel mio caso, qualcun altro, basti dire che al sol pensiero si viene assaliti dalle vertigini e che incombe la crisi di panico. Ecco, panico, che parolona: ero sul lastrico, appeso su un filo sottile, pronto all'idea di cadere ma non a quella di morire, in preda ad un'acutissima crisi di panico. Il cielo non era il limite, il suolo non era la certezza. 

La strada era deserta - il che mi consentiva di guidare ad una certa velocità - ed era troppo presto per andare a prendere Alex che probabilmente stava ancora dormendo, allora accostai su un lato della strada, in una via piccola e sconosciuta, e mi rintanai in un café. Ordinai un caffè lungo, presi posto ad un tavolo e mi misi comodo; il locale era raccolto e molto grazioso, la presenza di una Jukebox e il pavimento a scacchi mi fecero intuire che dovesse essere in stile anni '70, i tavoli erano accostati tutti quanti alle pareti - il mio invece ad una vetrata - ed erano dotati di buffi divani, se si possono definire così quelle panche laccate rosse. Una signora anziana, forse la proprietaria, si affrettò a servirmelo e, accesa d'entusiasmo - forse perché ero il primo, o peggio, l'unico cliente che avrebbe avuto nella giornata -, mi offrì una fetta di torta di mele. Iniziai sorseggiando il caffè, poi assaggiai il dolce ed il mio palato fu immediatamente risvegliato da un ondata di piacere, da quanto era che non mangiavo un qualcosa di così buono e fatto in casa… troppo; senza neppure accorgermene lo avevo già finito, ingurgitato ad una velocità pari a quella della luce. Era molto buono. Rimasi così di fronte a quella tazza di caffè ancora fumante, lo presi in mano e sfruttai il calore del coccio per scaldarmi le dita, poi ne bevvi un goccio, dopo un altro… e sorseggiando quel caffè amaro, in antitesi alla torta, mi immersi nei miei pensieri una volta ancora. Ero consapevole del fatto che avevo commesso un grave errore a non curarmi della scuola durante le vacanze natalizie e che avrebbero seguito, come giusta conseguenza, una sfilza di brutti voti che avrebbero contribuito solo ad abbattermi ulteriormente; ma ormai era tardi ed il dado era tratto.  Già mi immaginavo le scene che alcuni professori avrebbero fatto, le loro facce incavolate o addirittura stupefatte: sì, sì, le avevo già stampate in mente. Fosse stato l'anno precedente non avrei dormito la notte intimorito dalla sola idea di poter deludere i miei insegnanti ed i miei genitori, ma ora a chi importava? Era tardi per tornare indietro, e pure se avessi potuto farlo niente e nessuno mi avrebbe potuto garantire che non avrei rifatto lo stesso. 

L'ULTIMA OCCASIONE (completo)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora