Pensa

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Erano le quattro passate del pomeriggio quando finalmente raggiunsi la scuola e gli ultimi alunni che avevano sopportato le ore pomeridiane di rientro se n'erano già andati.
Ero rimasta piuttosto abbattuta da quello che era successo al parco, ora sembrava fosse successo molto tempo prima, ma la sensazione sebbena attenuata non era passata col tempo. Ci avevo impiegato quasi due ore per tornare verso la scuola. Due ore in cui ciondolando mi ero schiarita un po la mente da quel sovraccarico assurdo di emozioni ed ero fortuitamente riuscita anche a distrarmi. Ebbene sì, per il mio occhio sempre allerta e pronto a cacciare immagini interessanti gli scorci di Verona erano davvero l'ideale. Mi prudevano le mani per la voglia che avevo di fotografarli tutti e un po speravo di riuscire a ricordarmeli quel tanto che bastava per poterli almeno imprigionare su un foglio, dal momento che non avevo la mia macchina fotografica con me.
L'atto di disegnare per me era un po come imprimere l'anima dei soggetti che volevo rappresentare sulla carta e li rendeva eterni, immortali. La fotografia era la stessa cosa ma da un punto di vista più critico e stando dietro ad un obbiettivo mi sentivo sicura di me e incredibilmente coraggiosa.
Il bello di quando scattavo una fotografia o ritraevo qualcosa é che riuscivo a non farmelo scappare via, una volta ultimato era lì, fissato al suo posto e il tempo cristallizzava quella scena. La cosa che più mi rassicurava era pensare che quando i ricordi si sarebbero sbiaditi invece, loro sarebbero rimasti uguali, sempre lì e pronti a rinfrescarmi la memoria.
Il bisogno di intrappolare tutto quello che mi pareva davvero importante da ricordare era nato qualche anno dopo la morte della mamma. Ad un certo punto mi ero accorta di aver perso per sempre delle parti importanti, quei ricordi che mi avrebbero fatta sorridere se ripescati. E allora ero stata presa dalla assoluta angoscia. Io non volevo dimenticare più niente. Mai più. Ovviamente eccezion fatta per  numeri, date e affini, in quello ero proprio una frana.
Comunque avevo sentito l'esigenza di trovare un modo per non perdere nessun'altra tessera nel puzle della mia memoria in futuro.
Avevo cominciato con il disegno più classico a matita e poi con i pastelli, ma ero piccola e non riuscivo ancora a disegnare quello che visualizzavo nella mente. Mi mancavano le tecniche e la pratica. Così cominciai ad allenarmi e a perfezionare laddove non arrivavo. L'anno successivo papà decise di regalarmi un corso di disegno per sviluppare quel mio tanto  accanito interesse e quando lasciammo anche quella città portai con me gelosamente quello che avevo appreso.
Solo qualche anno dopo, diciamo pure cinque anni dopo, mi sentivo abbastanza fiera del livello di realtà a cui riuscivano ad avvicinarsi ogni mio disegno.
La fotografia invece era entrata a far parte della mia vita solo a quattordici anni. Un estate, mentre giravo fra le bancarelle di un mercato delle pulci  a Roma ero rimasta affascinata da un oggetto nella vetrina di un antiquariato. Era una vecchia Polaroid  tutta impolverata e reclusa ad un angolino mal illuminato nel negozio. Avevo subito capito che era un tesoro e quando la portai a casa tutta orgogliosa e gongolante, cominciai subito a pulirla e lucidarla al meglio. Una volta riportata all'antico splendore mancavano soltanto da trovare dei rullini adatti e il gioco era fatto. Da allora mi innamorai della fotografia e quando riuscii a mettere da parte abbastanza soldi per comprare una fotocamera professionale, acquistai la mia Nikon.
Sorrisi al ricordo e tolsi la catena alla bicicletta, c'era un odore penetrante di fumo che invadeva quella zona dell'edificio. Montai velocemente in sella senza preoccuparmi della fonte di quell' odore. Odiavo le persone che fumavano. Li reputavo  solo dei fighetti sbruffoni che volevano tanto fare i diversi ma che alla fine si uniformavano a tutti quelli che ci avevano già provato prima di loro. Patetici. Mi allontanai e pedalai con calma verso casa, tanto sicuramente papà era al lavoro.
Scelsi di prendere delle strette stradine laterali che si insinuavano fra le case e cominciai a pedalare sul terreno lievemente sconnesso.
L'aria frizzante della sera permeava i miei vestiti e il vento trasportava tutti i rumori della città in fermento. Era davvero una bella giornata, nonostante tutto, pensai sterzando lentamente verso sinistra dove la strada seguiva una ripida impennata verso l'alto. 
Montai in piedi sui pedali e affrontai la  salita spingendo prima su uno e poi sull'altro. I respiri sincronizzati al ritmo dettato dai piedi. Amavo quella sensazione forte di potere. Ero io che decidevo quanta energia mettere, la fatica e il sudore.
L'aspetto più intrigante della fatica della salita era sempre che poi era  ripagata dall'ebrezza della conseguente discesa.
Mentre scendevo rimasi impiedi sui pedali ma non pedalai più. Alzai la testa verso il cielo leggermente nuvoloso ed una goccia subito mi scese sulla fronte.
Sorrisi, mi piaceva l'odore dell'asfalto bagnato e ben presto cominció a piovere più fitto.
Cominciai ad affrettarmi per raggiungere casa prima di bagnarmi completamente e divorai gli ultimi chilometri sulla strada asfaltata. 

Quando finalmente misi la bicicletta in carage ero ormai stonfa da capo a piedi.  Il cielo sopra era completamente nuvoloso e grigio e non voleva proprio saperne di smettere di piovere. Il concetto fu  ampliamente sottolineato anche da un tuono accompagnato dal rumore dei clacson delle auto inferocite e il rombo lontano di una moto. Incredibile come si trasformava il traffico cittadino appena cadevano quattro gocce  d'acqua.
Appena entrai in casa decisi che così non potevo proprio starci. Avevo pensato di asciugarmi ma era tutto piuttosto inusabile, quindi andai in camera e mi tolsi tutto.
Rabbrividendo agguantai subito un paio di leggins e  un canotta intanto e poi cominciai a indossarli  ma proprio mentre stavo per infilare anche la canotta suonò il campanello.
Ma perché papà é sempre un tale sbadato?  Mi chiesi mentalmente scendendo le scale di corsa e infilando solo sulla testa la canottiera. Aprì la porta e senza neanche guardare chiesi girandomi verso l'ingresso << ma perchè non ti ricordi mai le chiavi papà? >>
Non sentì una risposta bensì un colpo di tosse a metà fra il divertito e l'imbarazzato. E a quel punto mi girai ancora incastrata fino alle spalle nel tessuto bianco e rimasi completamente interdetta.
<< cosa ci fai tu qui? >> chiesi sulla difensiva abbassando subito la canotta sulla pancia non prima di notare il suo sguardo che seguiva tutti i miei movimenti con interesse.

Her smileDove le storie prendono vita. Scoprilo ora