Capitolo 1

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Si trattava della terza in quella settimana. Un'anomalia.

Ethel si sentì come se l'apocalisse si stesse abbattendo su di lei e la sensazione era ogni volta un conato di vomito che poteva concludersi con il rigetto o la nausea continua per almeno diverse ore.

Non sapeva in che ospedale questa volta si trovasse, ma le pareti lilla non erano sconosciuti quindi ipotizzò di trovarsi al Guy's Hospital. Le finestre che si affacciavano al giardino interno splendevano della luce opaca del sole nascosto da nubi autunnali. Rispetto a questo periodo dell'anno di tutti i Paesi, perlomeno europei, l'autunno a Londra era molto più rigido del normale. Ma ad Ethel piaceva. Amava il tempo della capitale britannica. Normalmente, chi vive in un determinato Paese e sta a contatto sempre con le stesse temperature, comincia ad odiarle. Ma non era così per Ethel, che preferiva nettamente il gelo all'afa estiva tipica degli Stati del sud.

Ethel sospirò e si tirò su, mettendosi seduta e poggiando la schiena al cuscino rialzato. Cercò di non badare alla donna anziana sdraiata pochi metri più in là, con la pelle simile alla porcellana e i capelli più candidi della neve. Dava l'impressione di essere fragile come la carta pesta e di potersi rompere anche con un solo tocco.

Deglutì e spostò lo sguardo altrove.

Quanto detestava le sue crisi. La facevano stare terribilmente male e le mettevano in testa immagini crude, orribili. Quella mattina si trovava in città, con sua madre, con l'intento di fare qualche compera e di godersi la Londra tradizionale, quella con gli abitanti incappucciati e con le folate di vento fresco. Finché accidentalmente non si scontrò con un uomo, un tipo vestito di tutto punto, con perfino il gel sui capelli. Al contatto, la sua mente andò in caos e le piombarono immagini di morte, di sangue e di straziante dolore. Quando sbatté più volte le palpebre, l'uomo la fissava confuso mentre la madre accorse a trattenerla prima che cominciasse a rigettare la colazione avuta poche ore prima.

E poi si ritrovò lì, al Guy's Hospital.

Nessun dottore sapeva spiegare quale fosse il suo problema. Le dicevano che forse era stressata e che a quel punto cominciasse ad avere illusioni improbabili. Ma non ci credeva. Non ci credeva non perché non era affatto stressata, se non per le sue crisi, ma perché non poteva essere quella la spiegazione per tutte quelle anomalie. La madre, ogni volta, la portava in ospedale, eppure non accennava mai più di tanto al caso.

Ethel pensò che per una madre vedere la propria figlia soffrire sia uno dei più grandi traumi del mondo. E che proprio per quel motivo cercava di parlarne il meno possibile. E per Ethel non era affatto un problema, se non una benedizione. Odiava far ritornare nella sua mente quei flash distorti, ma contemporaneamente precisi. Ogni volta che capitava, impiegava tutte le sue forze affinché dimenticasse l'accaduto e ritornasse alla vita normale, pregando che non accadesse mai più.

Ma ogni volta si sbagliava e ormai le sue incitazioni a se stessa erano sempre più deboli.

Sua madre, Gaila, una donna di media statura, vagamente grassoccia e con i capelli biondi tirati all'insù, entrò nella stanza posando un rapido sguardo all'anziana addormentata. Quando i suoi occhi celesti si posarono sugli ambrati di Ethel, allungò un piccolo sorriso: «Possiamo andare. I dottori dicono che si tratta di un normale virus intestinale. Ti hanno prescritto un medicinale che ora andiamo a prendere.»

Ethel fu attaccata nuovamente da un conato di vomito che per fortuna non portò ad alcun rigetto. Come tutti gli esseri umani, detestava vomitare.

Gaila raggiunse il letto della figlia e la studiò come ogni madre studia la propria figlia quando ha un problema; «Tutto bene?»

Mamma, ho appena avuto un'altra delle mie crisi, se non te ne sei accorta. Come pensi che stia?, pensò Ethel, ma le rispose: «Sì. Andiamo.» anche se tornare in piedi era il suo ultimo desiderio.

Bitter Fate - Destino AmaroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora