Scappai di fretta quasi mi sentissi prigioniera. Di una realtà troppo grande a cui io non avevo niente a che fare. Era assurdo il solo pensiero che mio padre fosse in fin di vita. Dopo interminabili discussioni e splendide risate non avrei mai immaginato che sarebbe accaduto un giorno o l'altro. Non mi sembrava plausibile: tutto qui.
Non l'avrei mai accettato, era impossibile. E' impossibile.
Sembrava tutto così surreale distante dai miei sogni, e dai miei pensieri.E persino le parole che rimbombavano nella mente scorrevano veloci, rapide su sentieri pericolosi, come le lacrime e la pioggia sulle mie guance. Come i miei piedi sull'asfalto mentre mi dirigevo verso un posto unico, certa di poter star meglio.
E chi l'avrebbe detto, che ne avrei avuto ancora bisogno? Qualcuno aveva forse previsto che ci sarei tornata nuovamente? In questa catastrofe naturale, in questo strano capannone divorato dalla polvere, da vecchi attrezzi, da oggetti, che erano lì da sempre, dove tenevo intrappolati i ricordi peggiori. Era sempre tutto uguale. Al suo interno il tempo non scorreva, la vita rimaneva imprigionata tra quelle pareti.Il capannone perso in una radura, un bosco infestato. Non come i luoghi delle principesse: giardini incantati, creature magiche, animali dolci, Bambie ovunque. No, quello era il luogo in cui custodivo il diario di mia nonna e una batteria, il resto non mi apparteneva, forse però l'atmosfera di quel luogo era mia: triste, cupa, grigia, colma di pessimi momenti. Proprio come me.
E giuro avrei cominciato a strillare da un momento all'altro se solo la voce l'avessi avuta. Se solo la forza non mi avrebbe abbandonata. Perché accadde certe volte. Ti perdi nell'oblio senza saper cosa fare, con lo stomaco colmo di paura e il cuore zeppo di rimpianti, pensieri che ti assalgono alla mente in momenti assurdi.
Accade così. Tendi ad ingigantire le cose in una maniera impercettibile, scaraventando su di te le colpe e i pessimi giudizi. Bruciando tutta l'autostima che avevi costruito e protetto da altri. Accade così. Distruggi tutto con le tue mani. Distruggi te stessa.
Infrante tutte le certezze, spezzato ogni equilibrio ti senti sola d'un tratto. Credendo di non poter immaginare conforto, certa che non arriverà mai. Perché sei terribilmente sola. Anche quando sei circondata da mille persone e sei sola. E tutto intorno a te è una stupida menzogna.
Tutto è brutale, mortale anche quando ti affacci al mare tentando di cacciare tutto il male. E allora ci si stringe forte i pungi e come me, distrutta, accasciata a una parete metallica, si piange. Ma non importa, perché non si tratta di dolore. No, affatto, è pura autodistruzione che ti risucchia, ma basterebbe una sola persona per risollevarti da terra adesso che sei caduta, ne basterebbe una, che sia sincera e sappia aprire quella porta facendoti vedere la luce che potrebbe cullare la tua vita lì fuori.
"Posso entrare?" domandò una voce che proveniva da quel magico fuori. Annuii senza badare a chi fosse.
Le ginocchia strette al petto e il viso intrappolato tra le braccia. Sentii i suoi occhi posati su di me, Christian. Aspettò che alzassi lo sguardo ma non lo feci e allora udii i suoi passi dirigersi in lontananza.
Se ne starà andando pensai. E' giusto che si preoccupi per sé, non gli serve anche il peso della mia rabbia.
Eppure l'istinto mi diceva che sarebbe rimasto lì, perché era entrato, perché l'avevo sentito, perché in un certo senso ne avevo bisogno.
I miei fragili pensieri smisero però di rimbombare nella mente quando un rombo più forte coprì le parole. Un suono forte come quello di una batteria. Uno sbattere indefinito di timpani, percussioni e tamburi.
Alzai leggermente la testa per guardarlo. Era seduto su una vecchia sedia di legno chiaro, che certe volte faticava a reggersi in piedi. Eppure stavolta il peso di Christian sembrava non fare alcun effetto. La sedia lo sorreggeva e non riuscivo a spiegarmene la causa. Pura magia, pensai stupita.
"Comunque non è in questo modo che si suona" urlai cercando di sovrastare la confusione che si era creata in pochi secondi. Poi notai che aveva la famosa felpa nera con il cappuccio. Una maglietta bianca con in impresso in nero "19", un jeans un po' scambiato e quella felpa. L'avevo completamente rimossa dalla mente. Me l'aveva prestata dopo scuola e, niente. Non gliel'avevo riportata. Strano."Puoi smettere un attimo. Ti prego"
Non mi dava retta, sembrava perso nel suo mondo mentre scuoteva la testa e batteva il tempo con il piede destro. Eppure pareva essere realmente felice, come se la mia negatività non avesse affatto invaso la sua allegria. E se da un lato pensavo che avrebbe dovuto dispiacersi per me, consolarmi, asciugarmi le lacrime perché fino a tipo dieci minuti fa mi sentivo distrutta, dall'altra parte sapevo che stava facendo la cosa migliore, sorrideva e solo questo mi faceva star bene.
Ormai la musica però mi infastidiva parecchio. Insomma era assordante. Forse era semplicemente una delle esperienze scritte su quelle strane liste di cose da fare prima di morire.
Mi alzai da terra strofinandomi gli occhi e mi avvicinavi a lui. Subito il suo profumo riuscì a invadere i polmoni e tutta l'anima. Lo presi per i polsi e lo bloccai. Lui si voltò all'istante verso di me. Mi fissò per un po' e ovviamente mi sentii a disagio. Come sempre del resto, quando mi si legge negli occhi, lo specchio dell'anima.
Lo liberai dalla presa, certa che avrebbe distolto lo sguardo ma non lo fece. Lui non fa mai quello che mi aspetto. E' questo il punto, è imprevedibile.
Eppure i suoi occhi mi bruciavano addosso, come se realmente fossi colpevole di qualcosa, come se in qualche modo lui sapesse tutto. In un certo senso quel silenzio mi colpevolizzava, mi imponeva di andare da mia mamma e chiarire. Quel silenzio diceva un po' tutto, quello che da sola non era in grado di ammettere a me stessa.
E allora mi voltai perché sarei voluta andarmene e non dare retta a nessuno, neppure a chi sembrava aver ragione.
Attraversai il capannone ma non appena varcai la soglia dell'uscita lo sentii."Da chi scappi?"
Trasalii a quelle parole.Inevitabilmente aveva fatto centro, perché ultimamente stavo scappando da troppe persone, da mia mamma, da Maddalena a cui avevo paura di dire tutto ormai, da Daniel a cui non parlavo da qualche giorno per timore di ferirlo con le mie parole, nonostante gli avessi promesso la mia presenza incondizionata. E poi da mio padre, che era in coma, sospeso tra la vita e la morte e infine da lui. Stavo scappando da Christian perché era tutto troppo immenso per me. Non capivo l'inizio e la fine di quello che accadeva. Mi sembrava tutto sospeso in una dimensione parallela. Ci capivamo a volo eppure nessuno dei due sarebbe stato capace di definire la nostra relazione.
"Da nessuno" risposi ugualmente proseguendo per lastrada.
"Ehy fermati" mi impose poco dopo raggiungendomi.
"Questo è meglio se lo porti a casa" disse porgendomi il diario di mia nonna.
"Ma..."
"Ne avrai bisogno..." Era vero.
"Hai qualcuno che può aiutarti, cogli l'occasione. Non lasciarla scappare"
Quella frase poteva riassumere forse la mia vita, colma di occasioni a cui miero ritirata, partendo in difesa.
"Grazie"
Silenzio.
I nostri sguardi incrociati. Di nuovo.
"Ah dimenticavo. La felpa" disse mentre se la toglieva di dosso.
Non capivo. Aveva sbagliato la battuta del copione in qualche modo. L'avrei dovutodire io restituendogliela invece no. Era proprio come avevo sentito.
"E' per ricordati che in ogni caso io ci sono per te. Okay?"
"Okay"
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Storm
Teen FictionDesy, originaria dell' Estonia, all'età di cinque anni si trasferisce in Canada con i genitori e il fratello maggiore Diego. Da quel maledetto trasferimento non ce'è niente la possa rendesse felice perché forse proprio sotto quella corazza, quell'od...