21. Thomas

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Esiste una catena al mondo, è forte, inscindibile, intimorisce anche i più valorosi guerrieri. Situata tra due creature fragili, le tiene unite, strette tra loro affinché si sentano sempre attratte. Un legame rende sempre due anime dipendenti l’una dall’altra, connesse, unite, complementari ma dipendenti. Si tratta di una maledizione che ci hanno inflitto dal cielo. Si tenta e ritenta di essere più possenti per spezzare il proprio anello della catena, ma è tutto inutile, ogni passo è stato ormai deciso. Si prova a essere furbi ma qualcuno nel frattempo ci ha già preceduti. Sul filo del rasoio non puoi sbilanciarti né tanto meno voltarti, figurarsi se c’è tempo per cercare un’arma che possa distruggere il legame.
 

C’era stata una volta da piccola in cui avevo frainteso tutto, creduto di essere stata migliore. Avevo infranto la maledizione. In realtà mi era stato semplicemente aggiunto un altro anello che mi tenesse stretto a una persona estranea.
Avevo avuto all’incirca sei anni quando i miei genitori presero una saggia decisione, una delle poche che avevano condiviso. Rendendosi conto della situazione allora divenuta insopportabile per loro, decisero di assumere qualcuno che potesse occuparsi di me durante la loro assenza, nutrirmi negli orari prestabiliti e divertirmi a sufficienza affinché la notte dormissi. Era uno strano effetto collaterale della noia, diventavo facilmente irascibile, intrattabile con chiunque e la notte rimanevo sveglia, forse per dispetto, forse per necessità. Non si può dire addio a qualcuno con il broncio, neanche al giorno.
Ma le abitudini mutano, spesso si ribaltano ed io sembro essermi svuotata della felicità per far fronte all’adolescenza. Un pianoforte che devo imparare a suonare.
L’orgoglio che allora li teneva testa non gli avrebbe mai permesso di mettere in difficoltà zii, nonni o cugini, era necessario l’intervento di uno che per mestiere si sarebbe preso cura di me. Un babysitter.
Quindi corsero ai ripari, alla ricerca di una persona adatta, ma la faccenda era davvero durata un’eternità: troppo anziano, troppo inesperto, troppo noioso, troppo costoso, tutto troppo ma niente in realtà era mai abbastanza. Ecco che quindi si aggrapparono all’ancora più vicina alla perfezione: Thomas.

“Quanto sei cresciuta, oddio Desy sei una donna ormai” confessò analizzandomi da capo a piedi per identificare la Desy di una volta, per trovare in me la bambina che ero stata. Ma lo vedevo io stessa che aveva difficoltà a riconoscermi veramente in quel momento.
Lo guardai negli occhi per un attimo, distinguendo le ombre del nero carbone inghiottite dalle sue pupille.
Sorrisi appena per mostrarmi riconoscente di un complimento che non mi apparteneva affatto, che descriveva un’altra.
“Sei diverso”
Era una vaga osservazione che però sentivo con tutta me stessa, non distinguevo la rabbia dall’estasi in lui, una delusione e una piacevole rivelazione sembravano provocargli lo stesso effetto.
“Che ne dici di fare due chiacchiere davanti a una bella tazza di cioccolata calda?” propose leggermente a disagio, come se veramente avessi compreso tutto in cinque minuti.
“Così mi racconti anche della fede, no?!” domandai maliziosa afferandogli la mano sinistra con delicatezza.
L’altezza di una volta era rimasta la stessa, ma le spalle leggermente inarcuate in avanti e un bizzarro gonfiore in corrispondenza dell’addome, che ricopriva gli addominali, mi portavano a un solo pensiero: lo scorrere del tempo inevitabile per tutti.
Trassi dalla tasca del giubbotto il cellulare, analizzando i frammenti, la distruzione della telefonata di Mike. Avrei voluto precipitarmi in Christian per conoscere la sua ultima cazzata. Per tirarlo fuori dall’ombra oscura di se stesso. Ed invece ne ero totalmente estranea, e la rabbia non migliorava di certo le cose.
Lanciai un’occhiata fuggitiva a Thomas notando la sua disapprovazione nel vedermi rigirare l’apparecchio distrutto tra le mani.
“Mi perdoni?”
“Ho alternative?” alzai un sopracciglio per rendere l’idea della domanda retorica, quasi accusatoria. Facendo leva sulla mia distrazione, e la sua, il cellulare caduto sul lurido marciapiede era andato in frantumi. Non che fosse colpa, sua o mia, era semplicemente successo affinché mi preparassi psicologicamente alla notizia di Mike, che speravo di ricevere a momenti .
“Ti va bene se ci fermiamo qui?”
Annuii, sollevando lo sguardo rivolto al locale a quanto pare apprezzato soprattutto dai giovani adolescenti. L’aria soffocante del caldo eccessivo provocarono in me una breve destabilizzazione per adattarmi all’atmosfera dei caldi colori di cui erano tinte le pareti. Seguii Thomas accomodandoci ad un tavolino desolato, in fondo alla seconda sala disponibile per i consumatori. La fragranza di una candela profumata che segnava l’entrata nei bagni mi fece tornare alla mente l’ormai abbandonata abitudine di mia madre, rimasta sola nell’albergo. Probabilmente era uscita, in giro per la città, tra un vicolo e l’altro pensierosa, tentava di seguire delle tracce che non esistevano per raggiungermi in un luogo presso cui non mi sarei certamente recata.

“Tu cosa prendi?” Thomas mi distrasse dai miei pensieri riportandomi al tavolino del bar nascosto nella periferia di Londra.
“Un succo al pompelmo”
“Cosa scusa?!”
“Mmm un succo al pompelmo” ripetei poco convinta.
“Esiste?”
“Sì credo proprio di sì, almeno a Toronto sì”
Si può non conoscere il succo al pompelmo? E’ legale? Insomma di cosa vivono gli altri se non ne conoscono neanche l’esistenza. Che degrado.
“Allora spiegami, cosa ci fai tu qui?”
“Un week-end con mia madre e un’amica”
“Una vacanza?”
“Sarebbe dovuta esserlo ma sembra tutt’altro al momento”
Non era servito a niente scappare da Toronto per un paio di giorni; i miei buoni propositi erano stati bruciati da una serie di fattori che probabilmente avrei dovuto prevedere, ma che preferivo occultare nei miei stessi desideri. Mio padre, un lontano ricordo, premeva nel cuore pretendendo di entrarvi con la forza, gliel’avrei concesso se in me si fosse risvegliato il perdono e la gratitudine, tuttavia udivo solo un’avversione palpabile nei suoi confronti. Avrebbe potuto chiamarmi, farsi sentire, dimostrarmi la presenza paterna di cui non necessitavo più, e invece si era rifugiato dietro lo scudo valicabile della distanza.
“E spiegami, com’è che ti trovi anche tu nella piovosa Londra?”
“Ci vivo”
Risposta secca d’un efficacia straordinaria.
“Comunque se hai bisogno di fare una telefonata sentiti pure libera di usare il mio cellulare”
Ma il numero di Mike chi se lo ricordava? Bella merda. Desy pensa, pensa, pensa. Ma certo Maddy.
Accettai la sua proposta e inviai un rapido SMS alla stessa ragazza con cui avevo litigato circa un’ora fa.
Dopo pochi minuti tra una risata e l’altra con Thomas ricevetti il numero di Mike e lo richiamai in fretta.
“Mike dimmi cos’è successo a Christian”
“Non… non è niente di che” udii una voce che sussurrava nel sottofondo.
“Senti o me lo dici o chiamo lui immediatamente”
“Christian è fuori controllo, okay?”
“Cosa intendi con questo?”
“Ha bevuto parecchio la sera dopo la festa, l’ho trovato su una panchina che dormiva come un barbone. L’ho riportato a casa mia. Si è fatto una doccia..”
“E si è ripreso giusto?”
“No, anzi. Era pieni di lividi sulle spalle e il labbro inferiore era spaccato. Gli chiesto cosa fosse successo ma ho solo peggiorato la situazione, ha cominciato a strappare cuscini, tirare calci e pugni ai mobili, e a denti stretti mormorava bestemmie una dopo l’altra ficcando di mezzo il tuo nome ogni tanto”

Bevuto, barbone, lividi, labbro spaccato, calci, bestemmie…. Il mio nome.


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