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Bagnai il mio volto stanco con l'acqua fredda proveniente dal rubinetto. Il contatto gelido conferì una sensazione come paradisiaca alle mie membra in fiamme.
Non sapevo per quale motivo mi ero ridotta in quelle condizioni, ma certamente non deve essere stato qualcosa di leggero, considerando la mia consistente perdita di memoria e i dolori che sentivo addosso.

Sollevai lo sguardo verso lo specchio circondato da luci led, per osservare il volto che non ricordavo più, per vedere chi ero.
I miei ricci castani ricadevano scomposti sulle mie spalle, segno che non erano stati sistemati per diverso tempo. I miei occhi spenti e stanchi erano azzurri, di un azzurro profondo, non quello del cielo sereno, più come il colore del mare quando è mosso; attorno ad essi due enormi cerchi violacei e quasi neri fungevano da cornice alla tempesta ritratta nelle mie iridi. Le mie labbra sottili e rosee erano tagliate e screpolate, con qualche crosticina qua e la; le mie guance erano sormontate da un numero indefinito di lentiggini che si disperdevano anche sul mio naso. Scostai una ciocca annodata di capelli e la appoggiai dietro all'orecchio rivelando così un profondo taglio che si propagava per diversi centimetri sulla mia fronte. Passai un dito sul segno rossastro e sussultai al contatto, la ferita doleva ancora, ciò significa che era ancora fresca.

Qualsiasi cosa mi fosse succesa, doveva essermi successa da poco, forse a distanza di due o tre giorni. Il problema che però continuava ad assillarmi era che cosa mi fosse successo, chi fosse stato a ridurmi così.

Osservai il mio corpo magro, la mia vita, così come le mie braccia e le mie gambe erano lunghe, esili e slanciate. Notai che dallo scollo della maglietta, esattamente sopra la mia clavicola sporgente, emergeva un altro segno violaceo. Scostai la manica e mio malgrado notai che il livido si espandeva anche verso la mia spalla, il che mi spiegò il motivo per il quale mi sentivo così indolenzita.

Poi il dubbio.

Alzai la maglietta per accertarmi di ciò che stavo pensando.

Lividi.

Graffi.

Tagli anche più profondi.

La mia pancia sembrava quasi un quadro impressionista, costellata da un'accozzaglia di colori dalle sfumature diverse, che si uniformavano nonostante fossero colori nettamente in contrasto l'uno con l'altro.

Dolore.

Dolore era quello che, unificandosi, queste diverse sfumature producevano. Dolore e paura.
Paura perchè, nonostante mi impegnassi con tutte le mie forze a ricordare, non riuscivo a far emergere nemmeno un immagine di ciò che era successo e questo forse faceva ancora più male di tutte quelle ferite.

Sussultai mentre cercai di medicare alcune di quelle ferite o perlomeno di placare quel bruciore insistente che sentivo mandarmi in fiamme ogni singolo centimetro di pelle.

Poi qualcuno bussò.

-"È tutto okay la dentro?" Disse la voce di Paola, ehm, mia madre.

Mi voltai verso la porta pensando che dovesse entrare, ma fortunatamente non lo fece. Non volevo che vedesse in che condizioni si trovava il mio corpo, ammesso che non le avesse giá viste in ospedale. Ero sicura che il sottore le avesse viste, ma c'era una minima possibilità che lui non le avesse detto nulla per non farla preoccupare e avesse liquidato la cosa dicendo che avevo "diversi graffi".

-"Si, va tutto bene." Risposi cercando di mascherare il dolore provocato dall'acqua ossigenata che reagiva con le mie ferite.

-"Il dottore è arrivato, vorrebbe visitarti. Sei disponibile?" Domandò ancora dall'altra parte di quella porta in legno bianca.

#21-Paulo Dybala Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora