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Caro John,

sai cosa mi ha sempre fatto male di te? Il tuo sguardo.

Entravo in ufficio la mattina e ti facevo un sorriso, ti salutavo con educazione, e tu mi salutavi, mi sorridevi, ma i tuoi occhi parlavano in silenzio, e si vedeva che lo facevi per gentilezza e che sei abituato a fingere da così tanto tempo che per te non è diverso da respirare.

Nei tuoi occhi vedevo chiaramente lo sforzo che facevi per sopportare la mia vista, per sopportare la mia presenza, e lo sentivo cosa pensavi; erano le chiacchiere di corridoio ad informarmi, le parole catturate alla macchinetta del caffè, i pezzi di discorsi che coglievo entrando in ufficio quasi all'improvviso, in quei giorni in cui vi lasciavo parlare, entravo in silenzio, poggiavo tutto, poi facevo un rumore, e vi salutavo con un sorriso. E ancora il tuo sorriso rifinito fin nei minimi dettagli.

Lo sentivo che odiavi immensamente quel mio modo di fare, la mia tendenza a stare nell'ombra, e sapevo che pensavi che fossi un fallito, che odiavi l'idea che non fossi incline alle rivoluzioni e che trovavi irritante che cercassi sempre qualcosa di schifosamente positivo. Sarai felice di sapere che probabilmente da ora in poi non sarà più così.

Sai in realtà cosa mi faceva più male di te? La cosa che mi faceva più male di te non ti apparteneva, ed era puramente mia. Mi faceva impazzire l'idea che, nonostante tutto, io ti ammiravo (e ti ammiro tuttora) immensamente. Questo modo che hai di parlare con le persone, di importi quale leader naturale, la naturalezza con cui stavi tra la gente e davanti alla gente, e poi la sfacciataggine meravigliosa con cui parlavi a tutti, senza troppi problemi, eppure con un'eleganza straordinaria. Rappresenti tutto quello che vorrei essere, da sempre.

Per questo mi dà fastidio: la mia utopia non mi può sopportare.

Penso che una cosa che odi di me sia il fatto che non ti veneravo, pur ammirandoti. La mia strana concezione dell'ammirazione, che passa attraverso il rispetto ma non arriva mai nemmeno a sfiorare la riverenza, questo non l'hai mai potuto sopportare. Il fatto è che, per quanto una persona possa essere importante, alla fine è pur sempre un uomo, come me. Non esiste motivo per venerarlo come un dio, non esiste motivo per renderlo un idolo, quando sappiamo tutti che esso può crollare alla minima fortuna avversa, perché è un uomo, e non è nulla in più di me o di te, è solo diverso.

Non ti ho mai venerato, no, ma mi sarebbe piaciuto conoscerti meglio, capire che uomo sei, se hai insicurezze. Sono sicuro che ne hai, ne abbiamo tutti.

Sai qual è la verità? Che alla fine non venero perché, stranamente, ho una mia identità. La verità è che sono fatto così:  non mi piace stare in mezzo alle persone, mi sento a disagio e non sono un leader nato. La verità è che sono felice di quello che sono, che non è malaccio. Ci sto bene, nell'ombra, osservo tutto dall'esterno, da lontano, e lo capisco, e a me basta questo. Ho già sperimentato l'esperienza del leader e so per certo che non mi piace. È come la birra: ad alcuni piace ed ad altri no, che ci vuoi fare?

Forse il problema era che non riuscivi a catalogarmi, ti rendevi conto che non sono semplice: non amo stare alla luce ma alla fine dei conti non ho problemi a dirti che una cosa non mi va bene. Sono difficile da inquadrare, e posso capire il tuo disorientamento.

Sai, alla fine, la cosa che ammiro di più di te? La luce. Io so che hai conosciuto il buio, tutti l'hanno fatto. Ma tu sei sempre dannatamente immerso nella luce, brillante di qualcosa di divino, come se non avessi conosciuto il dolore, la derisione, la sconfitta. Quella luce che emani e che sa di vita e che ti fa brillare come pochi al mondo, quella l'ho sempre ammirata. Non fai del vittimismo, non l'hai mai fatto, hai preso il dolore come veniva e l'hai trasformato in luce. Io, invece, il buio lo sento, eccome. E fa paura, sai? Non credo di poter brillare come fai tu, e questa è la sostanziale differenza tra me e te: io non sono così abile a trasformare il dolore in luce, non so ancora bene come farlo. La disperazione è brutta, e credo tu lo sappia.

Sei luce, luce pura, ma non mi puoi giudicare. Non sai come sono arrivato ad essere questo, non sai come avresti reagito alla mia vita, alla mia mente, non sai che significhi vivere dentro di me, come io non so che significhi vivere dentro di te. E magari conosci anche tu la disperazione più nera, ma sai così tanto di luce che è difficile immaginarla associata a te. Non mi puoi giudicare, capisci? Tu non sei me, e se io vedo ancora il buio, se ancora ho addosso un mantello di oscurità, questo non significa che dentro di me non possa avere luce. Lo sai bene, luce e oscurità non si negano a vicenda.

Ma penso di stare delirando, ora, non credi? Il discorso sta degenerando e, probabilmente, mi sono contraddetto un paio (forse più) di volte. Prova a capirmi, ti prego.

Sappi che ti ammiro, ancora e nonostante tutto, ma che non sarò mai la pecora che vorresti ai tuoi piedi. Mi dispiace immensamente, ma un'utopia non si serve mai: si segue e basta.

                                                                                    L'uomo irritante che, non ci crederai, è un eroe in crisi.

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