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Deb,

ti ricordi quando tu scrivevi poesie sul mare invernale e io stavo ad ascoltarti recitare in silenzio, per ore? Ricordi come stavamo bene? Mica lo sapevamo, che il male esisteva, mica lo sapevamo, che siamo mortali.

Non siamo più così, purtroppo. Bei tempi andati, e solo adesso posso capirne il significato. Stai diventando vecchio, quando lo dici, e la cosa tragica sta nel fatto che puoi anche capirlo.

I bei tempi andati non sono belli perché sono andati, ma perché erano inconsapevoli, perché noi eravamo inconsapevoli. Non esiste paragone, certo, tra l'intensità della vita di uno che conosce la morte e l'intensità di vita di uno che non la contempla nemmeno, tuttavia a volte avrei preferito non saperlo mai, che sono mortale, che siamo mortali.

Erano gli anni dell'immortalità, Deb, e ci credevamo fermamente, ignoravamo senza pudore la morte che pareva così lontana.

Non siamo più gli stessi, non siamo più quelli.

E fa un po' male, non lo senti anche tu? Insomma, è qualcosa di profondamente conficcato dentro di noi, come un ricordo che si fa sempre più lontano, ma mai troppo lontano da non essere visibile. Sempre lì a ricordarti che è stato diverso e a metterti il dubbio se fosse meglio o peggio.

Sì, la consapevolezza, che pure è importante, ha il suo prezzo, ed è appunto la spensieratezza, la serenità degli immortali, degli dei.

Eravamo dei, e ora mi riscopro uomo.

Non mi dispiace, sai? Anche se fa male, alla fine non tornerei indietro. Mi è servito, credo, scoprire di essere umano. È stato un bel colpo, ma alla fine essere dio per sempre sarebbe stato noioso.

In compenso sono diventato eroe, che è sempre uomo, ma (dicono) con qualcosa in più. Cosa, poi, bisognerebbe chiederlo a loro. Qualche complesso in più, probabilmente intendevano questo i teorici che teorizzano ma mica si azzardano a diventare eroi per provare sulla loro pelle. È che lo sanno, che ad essere eroi si guadagna solo complessi.

Come stai, Deb? Cosa sei diventata? Giri anche tu, grigia in mezzo a quelle persone grigie, con una ventiquattr'ore e i tacchi alti e gli occhi vuoti, in metro? Giri anche tu tra le formiche degli uffici, formiche che non si fermano mai eppure sono sempre ferme, ancorate a quelle stupide sedie scomode, ancorate a quella stupida routine fin troppo comoda?

Oppure hai ancora quelle calze colorate a fiori e quel vestito bellissimo che mettevi alle feste di fine anno? Se non metti qualcosa di colorato non ti riconoscerò in questo mondo ingrigito.

Vorrei vederti con un ombrello arcobaleno alla fermata di un bus, con le scarpe da pioggia rosse e un impermeabile giallo; vorrei vederti che ascolti la musica, le cuffiette verdi, una musica bella che non sa di questa città. E intorno a te tutto grigio, ma tu te ne freghi, anche degli abbinamenti dei vestiti, e sei una macchia di colore che porta come la vita.

Allora ti riconoscerei e ti saluterei e ti direi: "ciao, Deb." E allora tu sorrideresti e mi diresti che mi trovi bene, che ho la solita aria da pezzente disadattato sociale. Allora faremmo un giro, e per un paio d'ore saremmo di nuovo nei bei tempi, andati e più vicini che mai.

Mi dispiace così tanto, Deb. Che tutto debba passare e cambiare ed evolvere, questa non la capirò mai, questa cosa. Ma cosa vuoi: siamo uomini, mica dei, e non possiamo sapere tutto.

Non fraintendermi: sono felice di essere uomo, è che a volte fa male, soprattutto se non c'è nessuno con un ombrello arcobaleno.

                                              Il ragazzo che ascoltava le tue poesie, che ora è un eroe, ma sempre in                                                                  crisi, come piace a te.     

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