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È difficile, troppo difficile anche solo mettere un piede davanti all'altro. Le scarpe mi pesano sui piedi; il fiato si spezza nella gola.
Gli occhi sono su di me.
Tutti loro mi fissano.

Raggiungere il banco della classe è un'impresa. Mi tremano le mani.
Come posso scomparire per il resto della giornata? In che modo posso impedire alla mia presenza di incuriosire gli altri?
Ogni azione è poco chiara, le loro parole mi arrivano distorte, ringhi di bestie sconosciute.
Afferro la matita e questa mi cade dalle dita, rotola sul banco liscio fino a rimbombare con un tonfo sordo sul pavimento.

Il figlio della pazza non riesce neppure a tenere gli oggetti in mano.

È questo che state pensando? Avanti, cosa vi impedisce di dirlo ad alta voce?
Rovisto nella borsa. Ho bisogno di musica, solo lei è capace di darmi un po' di pace. Con mia grande delusione, noto la mancanza delle cuffiette.

Mi viene da piangere.
La mia unica soluzione di andarmene per qualche ora è svanita, e così sarò costretto a sopportare i suoni di questa classe ostile.
Non ce la farò. Verrò schiacciato dal panico.

Spalanco gli occhi quando qualcosa mi passa davanti.
Sono mani femminili: appartengono ad Amelia. Mi porge i suoi auricolari e sorride gentile per infondermi coraggio. Un coraggio che, tuttavia, non riesco ad afferrare, mi scivola addosso senza attecchire.
Stringo le cuffiette tra le dita e cerco di sorriderle.

Mi vedo riflesso nei suoi occhi.
Sono un animale impaurito, la linea delle labbra trasformata in un ghigno distorto.
Abbasso lo sguardo sul foglio ruvido ripiegato sul banco. Ho perso la completa voglia di disegnare.

«Ecco Dami, ti ho ripreso la matita» dice Daniel sedendosi accanto a me, avvicinando la sedia di poco per infondermi il calore della sua presenza.

«Grazie.» Secco, laconico.
Non riesco a esprimere molto in questo momento. Ho voglia di gridare, e non sembra affatto una buona idea.

Perché non sono tornato a casa dopo aver appreso la nefasta notizia?

Ah già, Daniel mi ha consigliato di combattere, e rintanarmi in casa come un topo in fuga non era la migliore delle idee. Avrei solo rafforzato la convinzione del mio disagio provocato da quel foglio sui dati relativi a mia madre.

E non è forse così? Ne sono terrorizzato.

Quanto ci metteranno prima di scoprire che ho ucciso mio padre? Gli occhi mi si riempiono di lacrime, ciò nonostante, nessuna di loro solca le mie guance e se ne restano al proprio posto.
Ottimo.
Ho evitato la figura del bambino triste che piange tutto solo al banco perché il compagno di classe lo ha spinto in terra e si è sbucciato un ginocchio.

Magari fosse così semplice.

«Damien, oggi non ti senti di disegnare nulla?» Il suono della voce della professoressa mi fa sobbalzare talmente tanto da strapparmi un gemito.
Cosa posso dirle? Non è mai capitato che uno dei suoi studenti modello restasse per un'intera ora a fissare un punto indefinito della stanza, senza toccare il foglio.
Deglutisco.
Devo riuscire a trovare le parole giuste senza dire la verità.

«Mi dispiace, il mal di testa mina la mia concentrazione» mento in modo sfacciato.
Almeno questo lo riesco ancora a fare.

La professoressa stringe le labbra, annuendo comprensiva. Conoscono i problemi dovuti alla mia patologia, l'ho dovuta riferire per giustificare le assenze dalle lezioni.
Vedo qualcuno girarsi verso di me e stringo la matita quasi fino a spezzarla.
Sì, avete capito bene. È per colpa vostra se non riesco a disegnare; della vostra dannata curiosità mista a compassione.
Le lancette dell'orologio stretto al polso ticchettano fastidiosamente, neppure la musica riesce a coprire quel suono assordante.

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