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La casa è vuota, silenziosa.
Le pareti si stanno muovendo... o sono io a camminare?
Non riesco a ricordare come sono arrivato qui. È davvero casa mia?
Vago, con la punta delle dita sfioro la carta da parati e la vedo staccarsi, pezzo dopo pezzo.

Il cigolio di una poltrona; il profumo di tulipani; un miagolio lontano.

Alzo lo sguardo sull'orologio. I numeri sono opachi e fatico a metterli a fuoco.
Qualcosa mi punzecchia alla fine della mente, un allarme lontano al quale non do retta.
Continuo a camminare, ho i piedi umidi e solo in secondo momento mi accorgo che la stanza si sta pian piano allagando.

Da dove entra l'acqua? La finestra è aperta. Deve essere questo il motivo.

Non importa. Sono qui per cercare qualcosa... o qualcuno?
L'ho dimenticato.
Mi blocco. Il suono dell'acqua proviene dal piano di sopra.
Che stupido, avrò dimenticato il rubinetto aperto. Salgo le scale, i piedi bagnati producono un rumore viscido su ogni gradino.
Un nuovo allarme nella mente: la mia casa non ha le scale.
Proseguo l'avanzata aggrappandomi al corrimano di legno. La melodia di una musica in lontananza accompagna i miei passi. Sono violini, o forse si tratta di un pianoforte.
Mi dirigo verso il bagno, l'acqua scroscia da sotto la porta e si infrange contro le mie gambe.
La mia mano tocca la superficie, le dita tremanti. Una scalfittura nel materiale attira la mia attenzione. Sembrano graffi, c'è del sangue incrostato nei segni.
Ingoio a vuoto.
Con molta fatica sospingo la porta, cerco di combattere contro la pressione dell'acqua.
Fa freddo, posso percepire il gelo nelle ossa, una morsa che mi stringe dall'interno.
Una presenza mi alita sul collo, la avverto alle mie spalle. Un giudice in attesa del verdetto.

Non posso entrare. Non voglio entrare.

È sbagliato, tutto sbagliato. Non è la mia dimora, perché sono giunto fin qui?
La stanza si staglia davanti ai miei occhi. La tenda di plastica sullo fondo è tirata fino alla fine, copre la vasca ed è da lì che gronda il liquido.
Sento qualcuno piangere e sono quasi certo di non essere io, tuttavia voglio esserne sicuro e alzo una mano a toccare il mio volto, ma quel semplice gesto risulta così difficile che rinuncio a metà percorso, abbandonando il braccio accanto al fianco.
Avanzo. Mi trovo a un passo dalla tenda.
La luce sul soffitto vibra, la lampadina a luce fredda si riflette sulle piastrelle bianche e rende tutto più brillante.

Ho il respiro pesante, mi manca l'aria.

Afferro la plastica e la stringo tra le dita. Potrei andarmene, fuggire da questo luogo.
Allora perché non lo faccio? Mi sembra di aver promesso a una persona che sarei rimasto e che non mi sarei tirato indietro.
Scosto la tenda e, proprio come se fosse un sipario dei teatri, si muove da sola, come se ci fosse qualcuno a tirarla al posto mio.
Ingoio ancora una volta.
Abbasso lentamente lo sguardo. Mi spaventa il pensiero di ciò che troverò.
Il riflesso del mio volto sulla superficie mi rimanda indietro uno sguardo terrorizzato.

Non c'è nulla. Come mai avevo tanta paura?

«Guarda bene.»

La presenza alle mie spalle ha deciso di parlare. Possiede un tono non identificato, lugubre e minaccioso.
Muovo di nuovo lo sguardo. Una figura minuta emerge lentamente, gli occhi vitrei e senza vita, i capelli corvini vorticano accanto al suo volto.
Ora sto piangendo davvero, ma forse sono sempre stato io, fin dall'inizio.
Riconosco le fattezze, sebbene il sangue inizi velocemente a uscire dal rubinetto e a coprire la sua pelle opaca.

È la sorella di Daniel: la piccola e innocente Roberta.

Sussulto. La figura dietro di me mi spinge in avanti tanto che sono costretto ad aggrapparmi al bordo della vasca per non cadere in acqua.
Le mie lacrime roteano verso il basso e colpiscono il viso della ragazzina innocente.

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