Capitolo uno.

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Continuava a fissarla insistentemente, poggiato contro il tronco di un albero, la sigaretta tra le dita. Aspirò il fumo da essa, senza mai distogliere gli occhi assottigliati da ciò. La vibrazione del suo cellulare, racchiuso in quei skinny jeans, lo riportò alla realtà e lo costrinse ad abbassare lo sguardo soltanto in tempo necessario per prendere il cellulare e rispondere alla chiamata in arrivo.

«Tesoro, ceni a casa?»

«Si mamma, arrivo a breve» la avvisò, soffiando il fumo in aria.

«Okay amore, a dopo

Harry sorrise dolcemente, riponendo il cellulare in una delle tasche anteriori del pantalone. Sua madre lo trattava come se avesse ancora cinque anni, quando in realtà era ormai un diciannovenne. Usava ancora quei nomignoli con cui da piccolo amava farsi chiamare, e che continuava a non disprezzare, anzi. Gli davano un senso di serenità, tranquillità, normalità.

Anche se odiava sentirsi chiamare in quel modo da qualsiasi altro familiare che non fosse sua madre o sua sorella. Loro erano le due donne più importanti della sua vita. Erano sempre stati un'unica cosa, loro tre, fin da quando suo padre li aveva abbandonati quando Harry aveva solamente un anno e Gemma, sua sorella, cinque.

Sua madre aveva sempre fatto in modo di non far mancare mai niente ai suoi due figli, facendo ogni possibile lavoretto per poter racimolare il necessario per sfamarli. Ci era riuscita, aveva fatto davvero un gran lavoro. Gemma aveva ormai ventitré anni, studiava e viveva a Londra, per diventare un medico, mentre Harry, dopo il diploma, aveva deciso di non continuare gli studi, ma di dedicarsi unicamente alla sua passione: la musica.

Lavorava part-time alla pasticceria di sua zia, e durante il tempo libero si divertiva ad esibirsi per le strade di Holmes Chapel con la sua inseparabile chitarra. Il più delle volte lo faceva con Niall, un biondino esuberante con cui non era ancora riuscito a stringere un qualcosa che somigliasse ad un'amicizia. Erano conoscenti, e avevano assodato che insieme incassavano molto più che singolarmente. Le loro voci si amalgamavano, così come le loro mani, sullo strumento musicale.

Riuscivano, ogni volta, a non stonare mai una nota, a non sporcare mai una canzone, né con la voce, né con le mani. Riuscivano ad emozionare, anche se non avevano un'elevata preparazione tecnica, e forse era proprio per quel motivo che erano così tanto apprezzati dalla gente.

Da un paio di giorni a quella parte, però, c'era una cosa che incuriosiva Harry particolarmente, anche perché era un ragazzo molto, forse troppo, curioso. Quella cosa era una roulotte color grigio metallico, stabilizzata sul fondo del viale in cui c'era anche casa sua, ma isolata, molto più in disparte da tutte le altre abitazione. La casa più vicina non si vedeva neppure lontanamente, e ciò che più straniva Harry era che non aveva mai visto nessuno entrarci o uscirci, tutte le volte che si fermava a dare un'occhiata.

I primi giorni pensava potesse essere l'abitazione di un gruppo di barboni, drogati, ma non si erano mai visti ad Holmes Chapel. Tra tutti i posti possibili, non erano mai arrivati fino a lì. Ecco perché la sua curiosità era alle stelle, in quel periodo. Ci pensava tutto il giorno, e l'unica cosa che voleva fare era riuscire ad entrare senza farsi scoprire, per capirne qualcosa.

Ma quella non era la serata ideale, dato che sua madre avrebbe aspettato lui per cenare, e non voleva tardare. Così, gettò la sigaretta nella prima pattumiera visibile, mise le mani nelle tasche della giacca e s'incamminò verso casa.

«Ma cosa fai lì fuori fino a tardi, con questo freddo?» gli chiese sua madre, con le mani sui fianchi.

«Nulla, mamma, semplicemente non mi va di rimanere in casa» rispose, scrollando le spalle.

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