ATTO XXIX- Visioni - Non arrenderti mio sposo

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Firenze 1548, Torre più alta di Palazzo Vecchio, 03 marzo

Ludovico

Mi avevano rigettato in cella dopo un'altra sessione di torture. Ogni volta erano sempre peggio.
Qualunque risposta davo era sincera e finiva sempre con la carezza dell'attizzatoio. Tutte le ferite che avevo sulla schiena si erano riaperte, e si erano aggiunte le bruciature.

Non erano ferite che rimarginavano facilmente, ma in quel momento era il problema minore. Dafne mi mancava, ma il pensiero che fosse al sicuro mi permetteva di sopportare il dolore.

Mi avevano spogliato dei miei abiti e ora indossavo una semplice tunica bianca, sporca di sangue, pantaloni ridotti a brandelli ormai. Ero a piedi nudi. Ma questo non era un problema, il guaio erano le ferite.

Mi sedetti a terra e guardai fuori. Era appena scoppiato un temporale, e l'odore delle strade bagnate saliva fino a dove mi trovavo io.

Non potevo nemmeno appoggiare la schiena contro una parete perché il dolore era lancinante.

Pensavo a Dafne, ma anche a Cecilia. La mia povera moglie. Non meritava quella morte.

Scossi la testa non volevo pensare al passato, solo al presente

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Scossi la testa non volevo pensare al passato, solo al presente. Anche se il pensiero di Cecilia continuava ad affacciarsi alla mia mente, non riuscivo a scacciarla e in più le mie forze stavano notevolmente diminuendo.

Sentivo che non sarei riuscito a rimanere vigile, il mondo aveva preso a vorticare intorno a me e crollai svenuto.

Dafne

La pioggia batteva contro il vetro della grande porta finestra della mia stanza. Era stato quel rumore a destarmi dal mio sonno senza sogni. La mia mente continuava a farmi rivivere il momento in cui io e Ludovico eravamo stati separati.

Avevo un dolore tremendo alle gambe, probabilmente mi ero agitata troppo, il solo pensiero di quello che avrebbero potuto fargli non mi faceva stare tranquilla. Dovevo strapparlo al granduca, avrei dato anche la vita se fosse stato necessario.

Elia si mosse nella culla e io ne approfittai per guardarlo meglio. In tutti quei mesi stava diventando sempre più bello e sempre più simile a me piuttosto che ad Arrighetti. Avevo il sospetto che quell'uomo orribile centrasse qualcosa con l'attacco che avevamo subito.

Non sarei potuta partire se il temporale non avesse smesso. Sospirai mentre mio figlio apriva un occhio come per vedere se fossi ancora lì.

-Ciao piccolo- gli sorrisi.

Sentivo che non sarei riuscita a stare lontana da lui per troppo tempo.

-Tranquillo, piccolo mio, non ti lascerò solo per tanto tempo, non ci riesco. Non pensavo che sarei arrivata ad amarti così tanto.

Lui sembrò non capire, ma non mi aspettavo nulla di tutto ciò. Volevo solo vederlo crescere sereno e sano.

Il temporale stava finendo presto sarei partita.

Ludovico

Non sapevo dove mi trovassi, ma sicuramente non ero più nella torre di Palazzo Vecchio, era un bosco di latifoglie dove soffiava una leggera brezza.

Da una parte mi sembrava un luogo familiare, ma non riuscivo comunque a capire dove fossi.

Iniziai a camminare anche se i dolori alla schiena e alle gambe non mi permettevano di sforzarmi troppo. Il sentiero era impervio pieno di piccoli sassi appuntiti che cercavo in ogni modo di evitare, ma non era così facile, i miei piedi nudi toccavano quel terreno umido e sentivo un forte senso di paura crescere dentro di me.

Mi fermai dopo qualche metro portandomi le mani alle gambe ferite. Me le ero fasciate con dei materiali di fortuna che avevo trovato nella cella in modo che assorbissero almeno un po' il sangue.

Ero affaticato, come mai mi era capitato in tutta la mia vita, il mio corpo era abituato alla fatica e agli allenamenti e ai combattimenti, ma in quel momento ero debole, forse stavo perdendo troppo sangue.

Mentre cercavo di riprendere fiato sentii un rumore di zoccoli e una risata allegra. Mi vennero i brividi quando la riconobbi.

Cecilia fu il mio primo pensiero.

Possibile che fosse davvero lei?

Mi detti del matto, non era possibile, lei era morta.

-Ludo-

Quella voce. Solo lei e l'eremita mi chiamavano Ludo.

-Cecilia?

Sul sentiero si era fermato un meraviglioso destriero nero come la notte, e sopra vi era proprio Cecilia. Bella come la ricordavo.

Scese da cavallo e corse verso di me.

-Sì, sono io.

Accennai un sorriso, ma non ero molto in forma.

Le gambe mi credettero e lei mi sostenne.

-Cosa ti hanno fatto?

-Sto bene.

-Non è vero, sei ferito. Ti hanno torturato, vero?

Annuii, era inutile mentire, lo vedeva da sé.

Mi fece sdraiare a terra sostenendomi appena la testa.

-È un sogno questo, Cecilia?

Lei mi accarezzò il viso sporco di sangue sorridendo appena. Per poi iniziare a fasciarmi le ferite più gravi.

-Sì, possiamo dire che sia un sogno.

Sospirai, ma un dolore potentissimo partito dal basso ventre mi mozzó il respiro.

Non pensavo che le ferite fossero tanto gravi.

-Il granduca mi vuole morto, forse sarebbe meglio se mi arrendessi.

Cecilia si fermò di colpo.

-No, non puoi arrenderti, vuoi lasciare Dafne da sola?!

Non pensavo che sapesse di Dafne.

-Tu sai di Dafne?

Il sorriso che mi mostrò fu sincero e dolce come lo ricordavo.

-Sì che lo so, e sono felice che tu sia tornato ad amare. Non avrei mai sopportato che per colpa mia chiudessi il tuo cuore.

Quelle parole mi lanciarono senza fiato, ero io che dovevo sentirmi in colpa non lei.

-È colpa mia se tu...

-Ssh. Non è stata colpa tua smettila di dirlo perché non è così.

-Io sapevo di Dafne e speravo che ti innamorassi di lei volevo vederti felice, ancora una volta di fianco ad una donna che ti amasse per quello che sei, un giovane uomo che a molto da dare.

Non sapevo come reagire.

-Voglio che tu continui a lottare, non arrenderti mio sposo.

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