5; Lydia

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Papà odiava l'ospedale. Pure io, e il reparto dei malati terminali era il più detestato. Entrambi odiavamo quella sensazione di claustrofobia, stare per ore in un lettino con un camice logoro addosso, crogiolandosi negli ultimi attimi di vita. Era come essere soffocati, forse anche peggio.

Parcheggiai la macchina e aiutai mio padre a scendere. La malattia incideva sempre di più sul suo umore, portandolo ad assumere molto spesso un atteggiamento scontroso e burbero.

Lo aiutai a scendere dalla vettura, nonostante insistesse tanto per fare tutto da sè era capace solo di bollire la pasta.

«Lydia, per favore, non ricordarmi che non posso fare un cazzo.»
Da quando gli era stata diagnosticata la malattia il suo vocabolario era passato dall'usare termini gentili all'uso frequente delle parolacce, ma fortunatamente non aveva ancora acquisito il linguaggio da scaricatore di porto. Ci mancava poco, però.

Prima di sedersi sulla sedia a rotelle che gli avevo preparato osservò tutto ciò che era davanti a lui con fare guardingo, come un leone che analizza il territorio prima di uccidere la sua preda.

«Molto poetico papà, ma adesso poggia il culo qui.» Commentai impaziente, alzando gli occhi al cielo.

Accennò ad un sorriso e finalmente si sedette sulla sedia, conservando ancora l'atteggiamento guardingo. Era incorreggibile. Chiusi la macchina con le chiavi e le feci scivolare nella borsa, dopodiché spinsi la sedia a rotelle prendendola per i due manici posteriori. Papà si lamentò dicendo che voleva fare tutto da solo, ma alla fine si arrese e si sistemò per bene.

Mentre percorrevamo la distanza tra parcheggio ed entrata dell'ospedale ne approfittai per studiare i volti e le espressioni degli altri malati a cui era concessa un po' d'aria. Nei più anziani regnavano tristezza e rassegnazione, mentre una dolce bambina innocente sorrideva felice mentre giocava con le bambole, nonostante avesse uno stantuffo attaccato al naso da dove poteva respirare e la testa completamente rasata, priva di capelli da acconciare e da vantarsene con le proprie coetanee.

Pensai a papà e alla sua malattia. Lì, secondo i medici di Harvelle, avremmo potuto trovare la cura necessaria. Dopo una vita di sconfitte e delusioni, ero determinata a vincere almeno questa volta.

Varcammo la soglia dell'ospedale, chiedemmo ad un'infermiera dove si trovasse il dottor Madler — il chirurgo che doveva operare papà — e lei ci indicò di prendere l'ascensore per andare al secondo piano, subito a destra.

Lo studio del dottore era una stanza rettangolare decorata con mobili che un normale medico non avrebbe potuto permettersi, ma uno stimato chirurgo sì. Il signor Isaac Madler era un bell'uomo sulla trentina con un'altezza e una corporatura che superavano la media, ma aveva mani piccole e abili perfette per il suo lavoro.

Appena ci vide ci fece segno di entrare e di accomodarci. Mostrai il mio sorriso migliore e mi sedetti su una delle poltroncine di fronte alla scrivania ovale, tenendo la schiena dritta e accavallando le gambe. La lista di attesa per un intervento del professor Madler era lunga quanto il Rio delle Amazzoni e anche se noi eravamo in una buona posizione avevo bisogno di più. Dovevo guadagnarmi, con le parole e con la gentilezza, il primo posto assolutamente.

«Il signor Jobs.» Disse il dottore rivolto a mio padre, sfoderando un piccolo sorriso. Spostò lo sguardo su di me e il suo sorriso si accentuò molto di più. Bene, lo stavo agganciando. «Lei è sua figlia?» Mi chiese.

«Esattamente. Piacere, Lydia.»

«Mi chiami Isaac.» Allungò la sua mano e la strinsi attirandola leggermente verso di me, un gesto che significava che ero io il capo.

«Allora» disse l'uomo, aprendo un fascicolo dal quale potei leggere distintamente il nome di mio padre, Hugh Jobs. «Vedo che suo padre soffre di un tumore al cuore chirurgicamente removibile da me, medesimo, me stesso.»

Annuii con decisione.

Sfogliò un'altra volta le pagine della cartella medica, leccandosi l'indice ogni volta che doveva cambiare pagina, poi la richiuse con decisione. «Mi dispiace, non posso operarlo.»

Fu come una pugnalata al cuore. Per un lungo istante mi sentii cedere, poi ripresi il controllo di me stessa. Deglutii. «Come scusi?»

«Mi dispiace, ma non posso effettuare quell'operazione. Non è per dei favoritismi o qualsiasi altra cosa, ma recentemente ho perso una persona cara per un intervento chirurgico guidato da me e non me la sento di mettere in gioco le vite di altri pazienti.»

«Ma come?!» Sbottò papà. Ero furibonda quanto lui, ma non persi la speranza. Dovevo convincerlo a operare mio padre. Dovevo farlo per la mamma, per lui e per la bambina.

«Papà, esci.» Dissi in tono calmo. Fortunatamente, lui capii cosa avevo in mente e girò i tacchi, chiudendosi la porta alle spalle.

Feci un respiro profondo, a malapena percettibile, poi iniziai a raccontare. «Senta dottor Madler, io ho assolutamente bisogno che operiate mio padre. Un po' di anni fa ho perso anche io una persona che amavo, amavo profondamente, e ho perso anche mia figlia. Non ho più una madre, è morta da ormai trentaquattro anni e mio padre è l'unica persona che mi resta, che è sempre stata al mio fianco. Per questo ho bisogno che lei lo curi, ho ancora bisogno di lui e del suo appoggio. La prego, signor Madler, faccia questo per quella persona che ha perso. I vostri pasienti hanno bisogno della fiducia che avete in voi stesso, perché è su quella che si basano le loro speranze. Non lasci che questo evento la turbi per sempre, alzi la testa e ricominci a salvare le vite come ha sempre fatto. Io, mio padre e molte altre persone abbiamo bisogno di lei.»

Ci fu qualche minuto di silenzio, in cui Isaac Madler osservò il nulla con fare pensoso.

Ma il suo sorriso, alla fine, mi fece intuire che ce l'avevo fatta.

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