15; Amanda

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Il mio ultimo appuntamento risaliva ai tempi dell'università, con l'uomo che poi sarebbe diventato mio marito per diciotto mesi. Dovevo avere circa venticinque anni e sfoggiavo una chioma rosso fuoco che mi aveva fatto guadagnare il soprannome di Carota Leithold. Ricordo che quella volta ero agitatissima e mi guardavo allo specchio nervosamente, alla ricerca di ogni minimo difetto.

Erano passati esattamente ventuno anni da quel giorno e continuavo ad ispezionare la mia figura allo specchio. Quel giorno sarei andata al Museo del Romanticismo con niente popò di meno che Hugh Jobs. Era un po' strano il fatto che due cinquantenni andassero ad un appuntamento in un museo sul Romanticismo, ma quando si parlava di Hugh Jobs ogni scusa era buona.

«Dai Amanda, coraggio.» Dissi a voce bassa. Indossavo un tailleur a quadri che mi avevano regalato i miei colleghi per festeggiare vent'anni di carriera. Ai piedi calzavo delle scarpe con il tacco basso e i capelli — di un rosso più spento di quando ero una laureanda — erano sciolti sulle spalle.

Dal punto di vista fisico e caratteriale, Hugh e Jared erano completamente diversi: Jared aveva il volto cadaverico e incavato mentre Hugh traspariva energia da tutti i pori, nonostante il mio ex marito fosse mio coetaneo e il padre di Lydia avesse due anni in più di noi.

Dopo aver detto a mia figlia che andavo a sbrigare un servizio, uscii di casa e trovai ad aspettarmi al portone l'uomo con cui sarei uscita. Indossava un trench chiaro che gli stava benissimo e stretti tra l'indice e il medio aveva i due biglietti.

«Amanda!» Esclamò non appena mi vide.

Ebbi un tuffo al cuore. Avevo sempre odiato il mio nome, suonava molto da vecchia bacucca, ma il suono melodioso che uscì dalla sua bocca era meglio di qualsiasi concerto di Beethoven.

«È bello vederti.» Continuò. Le mie labbra si allargarono in un sorriso.

«Anche per me.» Risposi.

Passammo un'infinità di tempo in un timido silenzio imbarazzato. Era come quando parli con una persona al telefono ma esaurisci gli argomenti ed entrambi state zitti. Mi sentivo esattamente come in quel momento.

Mi morsi un labbro, distogliendo lo sguardo dagli occhi azzurri di Hugh. «Andiamo?» Proposi.

Lui sorrise e mi aprì la portiera della macchina, da vero gentiluomo. "Un uomo così non devi fartelo scappare" aveva detto Sheri quando le avevo accennato di Hugh e dei suoi modi gentili. Ignorava il che fosse praticamente suo nonno, avevo intenzione di dirle la verità a diciotto anni. Pensavo che anche Hugh non sapesse che mia figlia era sua nipote, sennò ne avremmo già parlato. No, era un segreto tra me e Lydia.

*

Il Museo del Romanticismo era qualcosa di meraviglioso. Un imponente edificio costruito secondo lo stile architettonico dell'epoca ospitava più di mille testimonianze tra le quali quadri, affreschi, sculture e spartiti musicali di grandi compositori come Haydn e Mozart.

Hugh era entusiasta, io semplicemente euforica. Non ero mai stata lì, i biglietti costavano tantissimo e la lista d'attesa pareva non finire mai.

Parevo una scolaretta: saltellavo qua e là ammirando ogni cosa che era esposta, perfino le M&M's che qualcuno aveva lasciato vicino ad uno spartito. Hugh mi seguiva divertito e sopportava tutte le mie spiegazioni con il sorriso stampato sulle labbra e negli occhi. Faceva battute, alcune veramente squallide, mentre la maggior parte del tempo lo passava ad ascoltare le mie lezioni improvvisate con uno sguardo attento e che esprimeva un'altra emozione che io non riuscivo a decifrare.

Realizzai di essere attratta, magari innamorata, di lui ogni volta che mi guardava negli occhi. Era una sensazione nuova: pensavo che alla livida età di cinquantasei anni niente sarebbe stato possibile. Invece mi ritrovai con il cuore che batteva sempre più forte quando Hugh mi prendeva per mano per seguirmi meglio. Era un chiaro segno, significava resta con me.

Certe volte di sfuggita scorgevo della tristezza in lui, e non potevo frenare la mia curiosità.

«Hugh, cosa succede?» Domandai quando la nostra visita al museo terminò. Eravamo seduti su una panchina, ammirando il tramonto.

«Niente, Mandy.» Ogni volta che mi soprannominava così sentivo un brivido lungo tutta la schiena. Nonostante questo, non credevo alla sua scusa.

«Non è vero.» Dissi. «Raccontami. Sono come un prete confessatore per i miei ragazzi, fidati, a me puoi dire tutto. Non sarà più strano di quando un ragazzo mi ha detto di essere stato rapito e violentato da degli alieni oppure...»

«Mandy.» Mi interruppe lui, poggiando una mano sopra la mia e guardandole intrecciarsi. «Ho un tumore. Al cuore. I medici dicono che si potrebbe rimuovere, ma sono comunque in uno stato di stallo.»

Di colpo la storia degli alieni stupratori divenne qualcosa di tutti i giorni. Deglutii. «E quando pensavi di dirmelo?» Il mio tono suonava nervoso.

«Ti giuro, te l'avrei detto.»

«E quando? Pensavo fossimo amici, e agli amici si dicono le cose.»

«Mandy, ti prego, non peggiorare la situazione. E soprattutto, non dire che siamo amici. Tu mi piaci, e so benissimo che ricambi.»

Deglutii di nuovo e abbassai lo sguardo. Hugh si avvicinò a me, quasi non me ne accorsi, e lentamente mi baciò.

***
-5 till the very end.

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