9; Amanda

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Sheri era intenta a provarsi un completino appena comprato quando entrai nella sua camera.

Si stava guardando allo specchio, analizzando ogni singolo centimetro del suo corpo che, a mio parere, era perfetto ma nella sua mente c'era sempre qualcosa fuori posto: pori troppo dilatati, unghie asimmetriche, naso troppo rialzato e scemitudini così. Io, da professoressa di arte, potevo affermare che la figlia di Lydia e Scott fosse un'opera d'arte. Del resto, i genitori non erano da meno: Scott aveva un fisico che pareva scolpito nel marmo e Lydia sembrava una divinità orientale con quegli occhi leggermente a mandorla.

Lei spostò lo sguardo dallo specchio a me. «Non mi ero accorta che fossi entrata.»

«Tu continua a fare quello che stavi facendo, io vado in farmacia a comprare delle medicine per quel mio dolore all'anca. Non ci metterò tanto.»

Le sue labbra si piegarono in un sorriso. «Mamma, non ho cinque anni, so rimanere a casa da sola.»

Adoravo quando si credeva tanto grande da poter affrontare il mondo, ma sotto sotto rimaneva ancora la bambina con le treccine che avevo amato e cresciuto come se fosse veramente mia figlia. Certe volte con amarezza mi sembrava che io avessi rubato Sheri a Lydia, ma poi mi ricordavo che quest'ultima era troppo piccola e inesperta per avere una bambina.

Sheri mi diede al volo un bacio sulla guancia e io, soddisfatta, uscii di casa.

Fuori il sole splendeva come non mai, a differenza del temporale di alcuni giorni prima. Sarebbe stato un bel tempo per sedermi in soffitta e cominciare a dipingere il paesaggio, ma sfortunatamente la vecchiaia stava dando i primi presagi anche a me instaurando nella mia anca un dolore fastidioso.

Presi la macchina per andare dritta in farmacia e mentre ero ferma ad un semaforo controllai bene il nome del farmaco che dovevo prendere. La dottoressa Kastler diceva che era nuovo sul mercato, ma gli effetti di guarigione erano garantiti. Purtroppo, però, il nome della medicina era scritto con una grafia illeggibile persino da chi, come la sottoscritta, di strane grafie nel corso della sua carriera lavorativa ne aveva viste tante.

Arrivai di fronte alla farmacia, trovando parcheggio poco lontano da lì. Entrai e andai dritta alla cassa per chiedere ad una donna sulla trentina con una grossa voglia a forma di Spagna sulla guancia se avevano il medicinale di cui avevo bisogno.

«Scusi, ha il Paraphlanux?» Domandai.

«Aspetti un attimo, adesso controllo.» Rispose la donna. Entrò in una porta alle sue spalle, probabilmente il posto dove tenevano tutti i farmaci.

Rimasi sola nella piccola farmacia fino a quando dalla porta non entrò un uomo. Alto, quasi sulla sessantina, capelli nero pece e, stranamente, occhi di un azzurro intenso. Aveva qualcosa di familiare.

Camminava lentamente e respirava in un modo abbastanza rumoroso. Indossava un trench beige che gli stava veramente bene, e al dito non portava una fede. Strano, pensai, un uomo così curato ma non sposato. Non aveva molto l'aria da omosessuale, quindi optai per il fatto che dovesse essere vedovo.

L'uomo si guardò un po' intorno, poi venne vicino a me osservando interessato dei portachiavi che la farmacia offriva in omaggio ai clienti che acquistavano un dentifricio di una marca dallo strano nome.

Continuavo a chiedermi cosa ci fosse di tanto familiare in quell'uomo. La sua descrizione, il suo sguardo...

«Signor Jobs!» Esclamai. Lui sussultò e si portò una mano al cuore, poi mi guardò come se cercasse di capire chi fossi.

«Amanda Leithold, insegnante di arte di sua figlia Lydia.» Mi presentai porgendoli la mano. Non potevo dimenticarmi del colloquio che avevo avuto con lui, nel quale avevamo parlato di tutto tranne che di sua figlia. Ricordavo Hugh Jobs come un uomo interessante, dolce e con un grande senso dell'umorismo, oltre che straordinariamente bello.

«Signora Leithold, come sta? Mi chiami Hugh, la prego.»

«Ma certo, Hugh. Chiamami Amanda.»

Non so perché la cassiera ci mettesse tanto tempo a prendere quel farmaco che le avevo chiesto, ma fui grata per quel quarto d'ora che trascorsi da sola con Hugh. Incredibile, era esattamente come me lo ricordavo.

Parlammo di tutto: da quello che avevo mangiato a colazione alle sue esperienze come boy-scout a tredici anni, Hugh Jobs stava cominciando a diventare molto attraente con quello sguardo vagamente felino e la battuta sempre pronta.

Alla fine, però, la tizia con la voglia a forma di Spagna ricomparve sulla soglia con la medicina che le avevo chiesto, quindi fui costretta a pagare e a ringraziarla.

«Amanda» disse Hugh prima che me ne andassi dalla farmacia. «Vorrei che noi ci vedessimo, qualche giorno. Chissà, magari per una passeggiata o cose del genere. Sei una professoressa di arte, magari potresti illustrarmi alcuni musei di questa città.»

Sorrisi, capendo alla perfezione dove stava andando a parare. «Ne sarei molto felice.»

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