In due giorni riuscimmo a caricare sull'arca parte dei rottami dello spazio. Monthy ne fu entusiasta. Al mio sguardo apparivano ammassi con poco senso ma per lui erano elementi essenziali per riparare le antenne e certi altri apparati che non conoscevo. Mi fidavo di lui, e di Raven, per queste cose.
In quegli anni le competenze che ci erano mancate di più erano state quelle in biologia, chimica e botanica ma ci eravamo affidati ai dati già inseriti nei computer del reparto colture e in quello idrico ed eravamo sopravvissuti. Con la pancia vuota, ma vivi.
L'anello era provvisto di cose essenziali, essendo il cuore della parte tecnica e scientifica di tutta l'arca. Avevamo medicine, anche se con poca o nulla capacità di usarle, un po' di cultura, nel reparto stoccaggio materiali tecnici essenziali c'erano tute di ricambio, armi leggere e attrezzature per la manutenzione. Scarseggiavano molte cose, ma cercavamo di guardare il lato positivo.
Emori e Murphy si dichiararono subito disponibili per il reparto colture e idrico e fecero davvero un buon lavoro. Emori si dimostrò una persona di parola e collaborativa, anche se il suo carattere sfuggente e sospettoso non la fece legare molto con gli altri, almeno fino a che non ebbe il bambino.
Quando la guardavo non potevo non pensare che avere dei figli per noi fosse un lusso che non potevamo permetterci, ma che pure non averli sarebbe potuta essere la nostra rovina. Non ci avevamo mai pensato davvero ma quando successe del piccolo Ian prendemmo la decisione di evitare gravidanze. Fortunatamente gli scaffali della farmacia era pieno di farmaci anche per queste evenienze. Sull'arca le nascite erano state sempre fortemente controllate, e così doveva essere anche adesso. C'era poco spazio per la nostra sopravvivenza, cosa ne sarebbe stato di un bambino?
Passai davanti all'ingresso del reparto di Emori e la vidi di sfuggita seduta per terra. Tornai indietro ed entrai.
"Tutto bene?", le chiesi.
Annuì, senza rispondere. Mi avvicinai e sedetti a terra accanto a lei.
In mano aveva una piccola piantina, alta pochi centimetri, che usciva da una piccola zolla di terriccio. Era di un verde spento, ma viva.
"Cos'è?".
"Quando siamo venuti quassù avevo in tasca un pugno di semi"
"Li hai seminati solo adesso?"
"Si. Non ho mai avuto il coraggio di farlo. Mi dicevo: li pianterai solo quando starai così male da non poterne più e questi semi ti ricorderanno chi sei e da dove vieni. Ed ogni volta che stavo male pensavo di provare ma il pensiero che forse non sarebbero cresciuti o che sarei stata forse peggio mi faceva rimandare", disse tutto d'un fiato.
"Ma sono cresciuti...", commentai.
"Già...loro sono cresciuti", sussurrò accarezzando la piantina. "E' bella, no? Anche se non è verde come sulla terra".
"Emori..".
"Mi sento come lei. Spenta".
"Sai che non è così. Ne abbiamo passate tante, supereremo anche questa", provai a rincuorarla.
"Non lo so Bellamy, non lo so...", ripose con lo sguardo fisso sulla piantina.
Rimasi un po' in silenzio, ascoltando il nostro respiro. Non sapevo cosa dire, non volevo peggiorare la situazione.
Poi si alzò decisa. "Non c'è bisogno che tu dica niente. Niente mi ha spezzato e niente lo farà. Combatterò, come sempre".
Mi rialzai anch'io, senza aggiungere altro e tornai sui miei passi. Emori mi chiamò.
"Bellamy! Se c'è qualcuno che devi controllare quelle sono Harper e Echo. Non si sono mai sopportate e adesso è ancora peggio... attento a loro".
Me ne andai pensieroso.
Aveva ragione, ma su Echo da un po' di tempo non avevo molto ascendente, tranne che per un aspetto, che non volevo utilizzare. I primi anni rispettava le decisioni prese, ultimamente faceva quasi sempre di testa sua. Io non pretendevo obbedienza da nessuno, ma almeno che ci attenessimo alle soluzioni condivise. E lei non sempre lo faceva. Ma sapeva sempre come farsi perdonare da me, anche se poi me ne pentivo e mi sentivo in colpa per aver ceduto.
Non ero mai stato bravo nel comprendere i terrestri. Avevano un codice di valori che non condividevo e soprattutto, un concetto della vita umana molto diverso dal nostro. Qualcuno mi aveva fatto notare che non potevamo sentirci superiori solo perché avevamo un'idea di civiltà e di individuo più sviluppata della loro, perché, pur teorizzando l'assoluta importanza dell'essere umano, eravamo sopravvissuti pensando al bene del gruppo e sacrificando i singoli. Anche noi uccidevamo per scopi ritenuti più grandi. Dove stava in quelle decisioni la dignità di ogni uomo? Obbiettavo che si era sempre trattato di sopravvivenza, ma compresi che anche per loro, per gli uomini rimasti sulla terra era stato così. Sopravvivenza. Ma questo non giustificava ai miei occhi la legge del "sangue chiama sangue". O l'incapacità a lavorare per una pace duratura, invece che per la guerra.
Echo questa guerra ce l'aveva nel sangue. Tutti l'avevamo sperimentato in quegli anni. Fortunatamente era intelligente e capiva che era necessario collaborare nello spazio per poter vivere. Tutti dovevano collaborare, con uno scopo preciso, compiti precisi e determinazione. Così eravamo andati avanti, con il progetto di restare vivi e di tornare un giorno sulla terra.
E quel giorno stava arrivando.
La trasmittente trillò. Monthy mi chiamava.
Superai la sala computer e percorsi il grande corridoio su cui si affacciavano moti laboratori che avevamo sigillato, per non sprecare energia. Quasi dalla parte opposta dell'anello si trovava il reparto di meccanica e ingegneria.
Monthy discuteva con Raven, Harper cercava di mediare e Murphy li stava ad ascoltare in disparte. In silenzio.
"Ti dico che se colleghi questo alimentatore all'antenna farai saltare i circuiti. Dobbiamo costruirne uno nuovo. Così è troppo rischioso!".
Raven non sembrava d'accordo su qualcosa.
"Ma sprecheremo del tempo prezioso, senza contare che potremmo non riuscirci"
"Ma se salta tutto a cosa sarà servito recuperare questi pezzi? Se i circuiti fondono c'è il richio che anche l'antenna si danneggi irreparabilmente", continuò Raven. Poi si voltò verso di me."Bellamy, cosa ne dici?".
Scossi la testa. Veramente mi sentivo molto al di fuori di quella conversazione.
Murphy capì il mio sconcerto. "Riassumendo, la questione sta tutta in questa domanda: vogliamo bruciare le tappe e provare se l'antenna funziona, col rischio molto reale che si danneggi, o vogliamo aspettare ancora ed essere sicuri?".
Lo ringraziai con lo sguardo.
"Voi che ne dite?" , chiesi.
Restarono un po' in silenzio. Poi Murphy mi guardò. "Io dico di aspettare, come vuole Raven".
"Io direi di provare. Non è detto che si danneggi tutto e poi potrebbe funzionare. E se dovessero tornare quelli della Eligius? Dobbiamo poterci difendere in qualche modo. L'antenna aziona non solo le comunicazioni ma anche il sistema radar e quello di difesa ..", disse Harper, fermandosi di colpo.
"E quello di che?", chiesi stupito. C'era una nota di imbarazzo nella sua voce.
Monthy si fece avanti. "C'è una cosa che non ti avevo ancora detto. L'Arca possedeva un piccolo sistema di difesa, pensato soprattutto per proteggersi da eventuali corpi vaganti, piccole meteore o altro. Non funzionava più ma ho trovato il modo di ripristinarlo, collegando il sistema tramite l'antenna che ho ricostruito", spiegò.
Lo guardai incredulo. "Adesso siamo armati", dissi e la bocca mi si fece arida. "Sapete cosa significa questo?"
Mi guardarono perplessi.
Continuai. "Significa che potrebbero vederci come una minaccia"
"Ma potrebbe anche salvarci la vita", insistette Harper, mentre Murphy alzava le braccia in segno di esclusione..
Scossai la testa. Non sapevo cosa dire. Il cuore mi diceva che non ne volevo più sapere di armi e di distruzione, ma la mente mi faceva ragionare diversamente. Poteva essere un deterrente per eventuali nemici. Poteva essere la difesa che finora non avevamo avuto.
"Allora, che facciamo", chiese Monthy.
Si fidavano di me.
"Direi di aspettare ad avere un sistema sicuro prima di azionare quell'antenna. Meglio non rischiare. Abbiamo aspettato molto, possiamo aspettare ancora. Quanto pensi ci vorrà?"
"Non so, forse un mese, o meno, se collaboriamo", rispose Raven.
"Ok. Siamo tutti d'accordo?", chiesi.
Annuirono.
Avrei voluto aggiungere altro e dire a Monthy che certe decisione andrebbero prese insieme ma avevo la mente stanca e sentivo il bisogno di stare da solo, come succedeva spesso.
Harper mi seguì, fermandomi.
"Bellamy, devi dire qualcosa ad Echo".
"Perché? Che ha combinato?"
"Ha preso possesso della sala attrezzi da giorni e nessuno riesce ad andarci. Sembra diventato il suo regno. E poi è intrattabile. Devi farla ragionare".
Sospirai.
"Io? Credo sia davvero inutile", commentai.
"Non è vero. Vieni con me", disse e la seguii molto riluttante.
La porta era chiusa dall'interno e non si sentivano suoni.
"Sei sicura che sia qui?"
Harper annuì.
"Echo, per favore mi fai entrare?", dissi all'interfono.
Dopo pochi secondi la porta si aprì. Feci cenno ad Harper di andare ed entrai nella piccola sala.
Lei era distesa sul pavimento, braccia aperte, sguardo al soffitto.
"Che succede?", chiesi, ma immaginavo quale fosse il problema. Come Emori: sintomi da stress.
"Non si vedono che pareti", mormorò quasi a se stessa.
"Non è vero, se guardi fuori vedi la terra. Se guardi in giro vedi noi", risposi con poca convinzione.
"Voglio andarmene".
"Anch'io. Voglio vedere Octavia, voglio respirare aria vera. Voglio mangiare qualcosa che non sia estratto di alga", commentai.
Si alzò a sedere, le gambe incrociate, lo sguardo di fuoco. Mi stava semplicemente odiando.
"Vattene".
Mi avvicinai con cautela. Erano gli occhi di chi sta per assalirti.
"Vattene. Non voglio farti del male", ripeté.
"Voglio molte cose, che non posso avere. Non ancora", dissi dolcemente.
I suoi muscoli fremevano. So di cosa aveva bisogno. Di combattere.
Mi inginocchiai di fronte a lei.
"Voglio che combatti per tornare sulla terra".
"Perché non mi hai lasciata morire quel giorno? Non ero io che volevi qui"
Deglutii. Erano parole dure, ma che avevano un fondo di verità. Lo sapevamo entrambi.
Provai a toccarla ma lei intercettò il mio braccio, lo afferrò e velocemente mi fu alle spalle, tirandolo da dietro. Urlai dal dolore.
Cercai di svincolarmi ma era troppo forte ed io troppo debole. Mi atterrò, pancia sotto.
"Che vuoi fare?", grugnii.
"Dimmelo".
"A cosa serve? Lascia il passato dove sta", mugolai, mentre faceva pressione sulla spalla, rischiando di slogarmela. "Lasciami!".
Il suo peso sulla schiena mi impediva di muovermi. Ero bloccato. Smisi di provarci e anche lei rilassò la stretta.
"Lasciami andare Echo"
Allentò la presa e mi liberai, dolorante.
"Sei pazza o cosa?"
"Dimmi la verità".
Mi voltai, passandomi le mani nei capelli. Perché stava tornando tutto a galla proprio in quel momento?
"La verità è che volevo che tutti fossero salvi. Tutti. Ne abbiamo già parlato, sono anni che ne parliamo, perché me lo chiedi ancora? E' così difficile da capire?"
Lei si passò una mano sugli occhi, distrutta.
"Voglio tornare ad essere quella che ero, senza sentire il bisogno di nessuno".
"Non è possibile, lo sai. Sei cambiata. Tutti siamo cambiati".
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto. Si udiva solo il suono della ventola dell'aspirazione e qualche bip ripetuto in lontananza.
"C'è un motivo che non conosco?", continuai, vedendola ad occhi bassi, immobile come una statua.
Silenzio.
"Echo...", dissi cominciando a preoccuparmi.
Alzò gli occhi su di me. Erano cambiati, un fuoco diverso, un altro desiderio.
"Ti voglio", disse come semplice constatazione di un bisogno.
Scossai la testa. Non ero lì con la testa, non mi sembrava il caso. Pensavo alle pianure verdi che avevamo percorso sulla terra, alle alture dalle quali si poteva vedere il mare. Pensavo al cielo azzurro e a due occhi, che non avrei mai più rivisto. E' vero, tutto cambia, tutto passa. Che significato ha la vita?
Si avvicinò lentamente, come un animale. "Ti voglio ... torna qui, guardami", disse ancora a voce bassa, bloccandomi il collo con le mani.
"Non è il caso".
"Fammi sentire che sono ancora viva e che vale la pena vivere"
Sciolsi il nodo delle sue mani dietro di me e mi rialzai da terra.
"Sei viva, ma il significato devi scoprirlo da te. Io non posso insegnartelo, né darti il mio perché. Io non sono nessuno", dissi aprendo la porta per uscire.
Richiusi e mi appoggiai con la schiena alla parete del corridoio.
Cosa stavo facendo? Io non avevo nessun significato, né un perché. Il mio desiderio era flebile come una nuvola di polvere leggera. Andavo avanti perché dovevo farlo. Perché Clarke ci aveva salvati tutti e mi ero ripromesso che non avrei lasciato che il suo gesto fosse stato vano. Ma il vero significato della vita, quello, dovevo ancora trovarlo.
Forse erano loro che me lo avrebbero insegnato, un giorno, quando avrei rivisto Octavia e i grandi spazi aperti della terra. Quando avrei smesso di combattere. Forse avrei capito per cosa valeva la pena sopravvivere. Il significato della parola vita.
Ma quanto saremo durati ancora? Stavano cedendo ad uno ad uno; fino a quando sarei stato capace di riportarli alla ragione? Ed io, quanto tempo avrei avuto ancora da vivere per aiutarli e per rivedere la terra?
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I'm Bellamy Blake
Fanfiction"Vorrei poter dire, scrivere o anche soltanto pensare, che ci rivedremo ancora. Ma non è così. E' probabile che ti rivedrò in un'altra vita, che spero arrivi presto per me. Si, sono sicuro che arriverà presto. Me lo sento nelle ossa. Nella testa. E...