「Capitolo 2° 」

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7 Settembre

Da quel giorno, che al solo pensiero ancora mi fa tremare il cuore, la mia vita è cambiata radicalmente.

Sono passate due settimane e quattro giorni da quando lui mi ha lasciata. Da quando mi sono fatta lasciare. Da quando non ho cambattuto per lui. Da quando l'ho costretto a lasciarmi.
Dio, ancora non riesco a trovare una perifrasi che non mi faccia venire la nausea a causa del dolore che provo.

Sono tornata a vivere con i miei genitori nella speranza di essere meno sola e di affrontare questo ostacolo con loro, ma abitare qui o nella casa che condividevo con lui non è poi così diverso: mio padre fa il turno pomeridiano-serale in un centro di smistamento merce e mia madre lavora a tempo pieno come segretaria in una clinica pediatrica.

Il risultato di tutto ciò, oltre a quello non necessario di aiutare la mia autostima a farmi sentire una fallita disadattata e un reietto della società, è quello di essere quasi sempre abbandonata a me stessa in una casa troppo grande che dovrebbe essere vissuta in cinque.

Ogni tanto mio fratello minore viene a trovarmi e cerca di risollevarmi il morale con una confezione formato famiglia di popcorn al caramello o al cioccolato e qualche commedia squallida noleggiata per il pomeriggio, ma so che sono i miei genitori a mandarlo a controllare che non mi sia ancora fatta del male. Nella mia mente, ogni volta che lo guardo attraverso il vetro spesso della finestra mentre va verso la macchina e mi saluta con la mano, appare l'immagine di lui che compila un rapporto con la sua calligrafia affrettata e chiama i miei genitori per riferire ogni comportamento anomalo di sua sorella depressa.

Di tanto in tanto vengono a trovarmi anche alcuni tra i miei amici più stretti, ma sia il numero di persone che si interessano a me che la frequenza delle loro visite settimanali si possono sommare e contare sulle dita di una mano. O su due, se considero la prima volta che Sooyun, Haneul e Junmyeon sono venuti a controllare la mia situazione come tre incontri separati.

Non mi vorrei autocommiserare perché non mi piace il vittimismo, ma la solitudine e il silenzio delle giornate sono spazi enormi e voraci che riesco a saziare solo con i pensieri. E dato che la maggior parte degli argomenti sono fuori discussione perché lambiscono terreni che non sono sicura di voler saggiare, la consapevolezza della mia disgrazia autoinflitta è tutto ciò che mi resta.

«Hai bisogno di un aiuto esterno» sentenzia lapidario mio fratello, perdendo tutta la sua credibilità un istante dopo, quando versa sui popcorn una dose fuorilegge di caramello. «Magari un terapista può darti una mano a superare la cosa»

Mi rannicchio ancora di più nell'angolo di divano che è ormai diventato di mia proprietà, coprendomi fino al naso con la coperta beige a pois rosa per evitare di sentire l'odore troppo dolce del caramello. Le parole di mio fratello mi feriscono, mi fanno sentire come se fossi una pazza psicopatica da rinchiudere in una clinica psichiatrica di quelle che fanno vedere nei film, dove ci sono sbarre alle finestre e persino l'aria ha un odore sinistro e inquietante.

Non ho problemi mentali. Solo che la mia voglia di vivere ha raggiunto i minimi storici, senza di... senza lui al mio fianco. Per non parlare della tortura perpetua e straziante che mi infliggono i sensi di colpa. Sono dei predatori perfetti che attendono con pazienza il momento in cui sono più debole e agiscono in quel brevissimo istante di cedimento per partire all'attacco con una ferocia disumana. Senza aggiungere il rifiuto di accettare la mia esistenza da parte degli amici che avevamo in comune, cioé parte sostanziosa della mia cerchia di relazioni. Cerchia che sto trascurando da troppo tempo, ignorando i messaggi e lasciando squillare il telefono a vuoto fino a quando il mittente non desiste e mi lascia nella mia solitudine affollata di pensieri asfissianti.

Ora che ci rifletto, forse un disturbo mentale ce l'ho sul serio. Voglio dire, sono consapevole che ci sia una eterna guerra civile interna tra la me masochista che si rifiuta di superare ciò che è accaduto perché vuole punirsi per le sue azioni stupide e l'altra me, quella rivoluzionaria e pragmatica, che vede questo periodo di stallo come una semplice perdita di tempo che le impedisce di tornare a vivere con pienezza la propria vita. Inizio ad essere davvero stanca di una guerriglia inutile che non vede né vincitori né vinti ma che sfianca entrambi i fronti e li danneggia in modo irreparabile.

«Certo che le espressioni di Go Ara sono davvero esilaranti» mio fratello ridacchia senza distogliere lo sguardo dallo schermo del televisore. È così preso dal film che non presta attenzione ai pugni di popcorn che prende, con il solo risultato di farne cadere la maggior parte sul divano o sui suoi vestiti. Stringo le labbra in sorriso piccolo e appena visibile, ma spontaneo.

Mio fratello Minwoo ha solo due anni in meno di me, ma io l'ho sempre visto come un bimbo di cui prendermi cura. È sempre stato molto puerile e infantile, ma negli ultimi tempi questa sua condizione si è accentuata e ora assomiglia sempre di più ad un bambino da scuole elementari intrappolato nel corpo di un ragazzo diciottenne. L'esatto contrario di mia sorella maggiore Minji, da sempre la più responsabile e intraprendente della famiglia tanto che adesso lavora tra Hong Kong e Taiwan. E poi, ci sono io. La figlia di mezzo, sospesa a metà tra due uragani di personalità e anonima quanto uno yogurt bianco a temperatura ambiente che è tornata a vivere con i propri genitori dopo aver fatto il più grande errore della sua vita. Direi un modo un po' squallido e sottotono per presentarsi al mondo.

Se solo avessi dovuto descrivermi sei mesi fa, le cose sarebbero state completamente diverse. La mia carriera lavorativa procedeva a passo lento ma sicuro su un sentiero già tracciato, convivevo già da due mesi e il mio ragazzo aveva ottenuto un manager che lo aiutasse a diventare la nuova stella della SM Entertainment. Ero felice. Stavo bene. Ho avuto modo di provare il gusto unico della piena soddisfazione prima di scivolare nel precipizio.

Blocco lo sciame di ricordi pungenti prima che mi possano ferire e mi alzo in piedi alla ricerca disperata di una fonte di distrazione. Provo a concentrarmi sul film, ma le immagini che mi scorrono davanti sono ininterpretabili e le parole che sento sono prive di alcun significato perché schiacciate dall'imponenza mastodontica dei miei ricordi di una vita che sembra troppo lontana per essere reale.

«Se vai in cucina prendi altri popcorn» mio fratello mi porge la ciotola vuota e appiccicosa di caramello parlando a bocca piena, e io la afferro con forza, come se potesse fungere da appiglio per reggermi in piedi. Quasi corro in cucina e stringo il bordo del lavabo con entrambe le mani mentre scuoto la testa per allontanare quegli insetti fastdiosi e infidi.

«Non ora. Ti prego, non ora»
Non vengo ascoltata. Davanti alle mie pupille non c'è più il nero delle palpebre chiuse, ma il mio appartamento. È sera, la luce gialla dei lampioni penetra dalle finestre chiuse e illumina quel po' che basta il salotto e la mobilia minimal della stanza. Seduto sul divano con una coperta bordeaux sulle gambe c'è lui. E rannicchiata con la testa sul suo petto e i piedi infilati sotto alle sue cosce per stare al caldo ci sono io.

Una sua mano gioca lentamente con i miei capelli, come un gatto assonnato fa con un gomitolo di lana nuovo, e l'altra è da qualche parte incastrata tra i nostri corpi. Ricordo la stanchezza, la necessità di dormire incancrenita nel profondo del mio stomaco, ma ricordo anche il senso di torpore e la piacevole sensazione di stare bene nonostante tutto. Ricordo che quella notte ci siamo entrambi addormentati in quella posizione e abbiamo dormito così fino alla mattina successiva. Ricordo anche che il giorno dopo i muscoli e i legamenti erano indolenziti e che ci siamo messi a ridere quando ho detto che eravano troppo vecchi per fare certe cose.

Ricordo che lui mi ha stretta di nuovo tra le sue braccia e ha appoggiato il mento sulla mia testa. Ricordo il suo battito cardiaco, la sensazione di protezione, il calore del suo corpo e i suoi respiri regolari che gli muovevano il petto. E ricordo una frase mormorata sui miei capelli, la sua voce risuonare nelle mie orecchie come lo sciabordio di una barchetta sulle acque placide che riflettono il sole d'estate.

«Promettimi che invecchieremo insieme»

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