「Capitolo 5° 」

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9 Settembre

Mi sforzo di mandare giù l'ennesimo boccone mentre tento di nascondere il viso alla vista dei miei genitori usando i miei capelli come schermo. Il blocco allo stomaco mi ha fatto passare l'appetito, e il nodo che mi si è formato in gola di certo non aiuta a migliorare la situazione. È da quando sono tornata dal mio vecchio appartamento che sento questa strana sensazione che assomiglia terribilmente a quella che provavo gli ultimi minuti prima di una sessione di esami a scuola.

«Tesoro, non stai bene?»
Il riso saltato con le verdure è uno tra i miei piatti preferiti, ed è raro che io mi rifiuti di mangiarlo. Questa é certamente una spia del mio cattivo umore e del mio malessere generale, ma l'istinto protettivo di mia madre le ha sicuramente dato un indizio in più.

Appoggio le bacchette sul tovagliolo e alzo lo sguardo su di lei quel poco che basta per permettermi di vederla in volto.

«Ho solo un po' di mal di pancia» rispondo con un filo di voce. So che non si tratta solo di questo. So che ci sono altre decine di ragioni per cui io mi sento così male, ma di certo non perderò tempo elencando a mia madre i miei problemi quando potrei impegnarlo crogiolandomi nel mio stesso dolore.

L'unico risultato che potrei ottenere parlando con lei sarebbe quello di ricevere una cascata di occhiate di compassione e pena, probabilmente accompagnate da qualche carezza o un abbraccio svigorito.

Oppure, mia madre sarebbe pronta a risollevarmi il morale regalandomi un buono per un ciclo di cure mentali in qualche buona clinica fuori città. Rabbrividisco al solo pensiero, incassando la testa tra le spalle in un gesto istintivo.

«Ti posso preparane una tisana, se ti va» proprio come faceva quando ero piccola e le prime volte che mi sono venute le mestruazioni, mia madre mi sorride dolcemente nella speranza che io le dia il via libera per preparare una tisana. Sarebbe una buona idea, se non fosse che ho il terrore di vomitare anche quella. Scuoto appena la testa, stringendo le labbra in una linea dritta e sottile prima di tentare un'impresa impossibile. «No, grazie. Preferirei andare di sopra in camera mia»

«Ma non hai toccato cibo» come immaginavo, mio padre interviene mentre si versa l'ennesimo bicchiere di soju. Oggi ha il turno serale, e avendo tutto il pomeriggio per smaltire l'alcol non si pone problemi nell'abbondare. Ammetto che mi piacerebbe essere come lui, ma evito di bere troppo per paura che gli alcolici mi creino dipendenza.

Non sarei abbastanza forte da affrontare una disintossicazione da alcol. Come non sarei abbastanza forte da affrontare una disintossicazione da qualsiasi altra cosa da cui potrei essere assuefatta. Mia madre stringe la mano di mio padre in un rapido gesto di affetto, la vista della loro dolcezza è una nuova pugnalata allo stomaco che colpisce una per una le ferite ancora aperte che continuano a sanguinare da più di venti giorni. Dio, non so neanche perché mi ostini a tenere il conto dei giorni della mia nuova, monotona e priva di senso vita senza di lui.

«Lasciala andare. È normale che non abbia fame, se non sta bene» dice mia madre, dandomi un consenso quasi sempre negato. Mio padre sospira e annuisce appena, accarezzandomi la testa con fare protettivo. «Riposati»

«Certo, papà» mi congedo con un piccolo inchino e arranco fino alla mia stanza, salire ogni gradino è come scalare una nuova vetta sempre più ripida e scoscesa. Quando finalmente sono sola in camera, mi siedo sul letto accanto al borsone che ho lasciato qui poco fa e prendo il mio portatile. So che ci sono cartelle che contengono foto, documenti e video potenzialmente cancerogeni per il mio cuore, ma nonostante la tentazione sia altissima mi impongo di non entrare in nessuna di esse per risparmiarmi un nuovo dolore.

Vado invece su YouTube e metto la mia playlist di melodie a pianoforte personalizzata prima di aprire un nuovo file vuoto e iniziare a scrivere. O meglio, prima di iniziare a fissare il foglio bianco e la sottile riga nera che lampeggia ad intermittenza come per spronarmi a prendere il mio ruolo da ostetrica e aiutarla a partorire nuove parole. Vorrei farlo. Solo che... non riesco. C'è qualcosa che mi impedisce di scrivere, una forza che inibisce la mia mente bloccandola dal formulare un pensiero concreto e logico, un anatema malefico che ha pietrificato le mie dita cosicché non siano più in grado di digitare sulla tastiera.

Rimango immobile davanti allo schermo per interi minuti, le note cadenzate che scivolano nell'aria e rapiscono parte della mia vita prima di sparire nel nulla, subito rimpiazzate da altre note. Sento le palpebre farsi sempre più pesanti, spingono sui miei occhi per costringermi a chiuderli e dare tregua alle pupille dalla luce artificiale del computer come a volermi proteggere da una giornata guerriera che non sembra aver voglia di essere combattuta. Utilizzando il mio ultimo rimasuglio di forze, spengo in computer e lo appoggio accanto a me sul letto mentre il silenzio del primo pomeriggio mi avvolge come una calda coperta di lana e mi invita a riflettere.

Vorrei dire di essere contenta di me stessa per come mi sono comportata questa mattina, ma non posso mentirmi in modo così spudorato. Come al solito, non ho avuto il coraggio di affrontare la realtà delle cose e mi sono rifugiata dietro ad un foglio e una porta chiusa.
Avrei dovuto bussare. O avrei potuto direttamente aprire con la mia copia di chiavi per dimostrargli che, nonostante il tremore nella voce e lo sguardo fisso a terra, so essere coraggiosa.

Non avrei dovuto lasciargli il tempo di parlare, avrei dovuto invece dirgli tutto ciò che non sono stata in grado di dirgli prima che lui mi sbattesse fuori di casa. Volevo saltargli addosso, sentire di nuovo il suo calore sulla mia pelle, il suo respiro sul mio collo, il suo sapore nella mia bocca.

Stringo le labbra mentre sento il dolore salire e investirmi come acqua gelida e asfissiante, un'onda di dimensioni mastodontiche che mi ricopre con la propria imponenza, facendomi annegare in un oceano agitato di sogni torbidi.
Sogni dai quali mi risveglio un battito di ciglia dopo esserci caduta, con un nuovo dolore lancinante alle braccia e al collo a causa della posizione scomposta in cui mi sono addormentata.

Mi sposto i capelli dal viso, cercando di fare mente locale e ricordarmi dove ho lasciato il cellulare. Solitamente, non vado mai in giro senza avere il telefono con me. È sempre stato l'unico modo tramite cui avevo la possibilità di rimanere in contatto con i miei genitori e con le altre persone a cui tengo. Ma ora che sono tornata a vivere dai miei e che non ho più lui che mi scrive nei pochi momenti liberi che ha, non ho molto attaccamento nei confronti del telefono.

Lo trovo nel fondo del borsone, addirittura spento. Provo ad accenderlo, ma la batteria è talmente scarica che non riesco neanche ad inserire il codice di sblocco prima che lo schermo torni nero. Perfetto, ora mi abbandona persino il cellulare. Sono proprio sola al mondo.

Sbuffando, lo attacco al caricabatterie e aspetto qualche minuto per lasciare che tutte le notifiche arrivino senza bloccarlo per l'ennesima volta. Quando controllo chi mi ha scritto, il telefono mi cade di mano mentre sento il tempo dilatarsi intorno a me come se avessi messo in pausa la mia vita.

C'è una chiamata.
Una sua chiamata.
Di quasi un'ora fa.

Dopo il momento di disorientamento iniziale, mi passo le mani tra i capelli mentre tento di ragionare in modo razionale e mi accovaccio a terra, accanto al cellulare.
Non può averlo fatto di proposito, probabilmente gli è semplicemente partita la chiamata. Ma come ha fatto a partirgli? Stava cercando il mio numero in rubrica o doveva parlare con qualcun altro e per sbaglio ha chiamato me? Oppure lo ha fatto con la consapevolezza di ciò che stava facendo? Voglio dire, non è così improbabile che volesse parlarmi.

D'altronde, con il biglietto delle chiavi l'ho praticamente invitato a farsi vivo. E poi, l'altro messaggio che gli ho lasciato... penso che chiunque sia nella sua situazione vorrebbe ricevere delle spiegazioni. E sarebbe lecito che io gliele dessi, se solo sapessi che cosa dire.
Appoggio la schiena e la nuca alla parete gelida della stanza, chiudendo gli occhi per non avere più sotto gli occhi quel minuscolo distillato della sua presenza.

Si arrabbiava sempre così tanto quando non rispondevo alle sue chiamate, non sapere dove fossi lo mandava su tutte le furie. Dovrei chiamarlo per accertarmi che sia tutto a posto?  Dio, mi pare di essere tornata ai primi periodi della nostra relazione, quando ancora non lo conoscevo abbastanza da sapere come comportarmi.

All'improvviso, un dardo avvelenato si conficca a fondo nel mio stomaco, infettando rapidamente il mio sangue di una sostanza che mi corrode le arterie e brucia dentro di me quanto il fuoco vivo.
Non mi è rimasto più niente.  L'unica cosa che mi rimane sono i ricordi, ma il loro effetto è devastante. Non posso continuare così. Mi afferro il viso tra le mani, accartocciandomi su me stessa come una foglia secca e priva di vita.

ʳᵒᵗᵗᵉⁿ - ᵖᶜʸDove le storie prendono vita. Scoprilo ora