「Capitolo 7°」

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14 Settembre

«Sei in ritardo di quasi venti minuti, pensavo non venissi più» il terapista mi sorride, sistemandosi gli occhiali dalla montatura pulita sul naso. Lo pensavo anche io. Ho provato ad impormi contro ai miei genitori barricandomi in stanza e puntando i piedi a terra con tanta ostinazione che mio padre ha dovuto sollevarmi di peso per farmi scendere le scale di casa, ma è stato tutto inutile. Il mio comportamento infantile non ha fatto altro che fomentare la loro preoccupazione riguardo alle mie condizioni.

«Ho avuto alcuni contrattempi a casa. E la macchina non sembrava voler partire» stringo le labbra e mi accomodo sul bordo della seduta imbottita della sedia.
«Capisco» annuisce, spostando la targhetta argentea sulla quale è inciso il suo nome in modo che io mi possa appoggiare al tavolo. «Come stai oggi?»
«Vivo» nemmeno mi impegno per cercare di creare una frase di senso compiuto. Non ne vale la pena.
«Vivi?» L'uomo corruga la fronte, mettendo in evidenza le rughe di espressione sulla fronte alta. Io mi limito ad annuire, non sapendo cos'altro dire. Ma sono in compagnia di un terapista, ed è inutile che io provi ad evitare certi discorsi quando il suo lavoro è quello di farmi delle domande scomode. «Che cosa intendi con questo verbo, esattamente?»
«Non mi sento bene, ma non mi sento neanche male. Vivo e basta» è così frustrante non essere in grado di capire come ci si senta. Ho la consapevolezza che qualcosa che non stia andando come dovrebbe, però si tratta di un malessere transitorio che condiziona solo in parte i miei comportamenti. In mezzo al cupo plumbeo della pioggia, ci sono brevi sprazzi di sereno che mi permettono di stare meglio del solito.

«Hai avuto altri vuoti di memoria dall'ultima volta che ci siamo visti?» prima ancora che finisca di parlare, scuoto brevemente il capo. Terrò per me il fatto che ho sfiorato una nuova crisi, non voglio affermare di trovarmi in uno stato peggiore di quello in cui sembro di primo acchito.
«Hai avuto modo di vedere quel ragazzo?» il terapista si schiarisce la voce e sistema davanti a sé il blocco appunti ancora povero di parole.
«Non direttamente» dico dopo qualche secondo di silenzio. Notando però l'espressione dell'uomo seduto davanti a me, capisco che devo fornirgli qualche altro dettaglio. «Sono tornata nel nostro appartamento per prendere le mie cose e gli ho lasciato un biglietto perché lui non era in casa»

Distolgo lo sguardo dal blocco sul quale il terapista ha ripreso a scrivere, ho paura di ciò che potrei leggere. Ho paura di cosa lui potrebbe pensare della mia situazione, di ciò che chiunque potrebbe pensare a riguardo. Essere giudicata in un momento così delicato della mia vita non fa altro che farmi sentire ancora più insignificante e inutile. Che cosa mi resta se non ho lui?

«Cosa c'era scritto nel biglietto?» domanda il terapista, senza smettere di gettare altre parole sulla carta come una pompa di benzina sul fuoco vivo. Mi concentro sui cambiamenti di espressione sul suo viso alla ricerca di qualcosa che mi dia l'occasione di alzarmi e andarmene.
«Niente di che» scrollo le spalle, continuando ad osservarlo. L'uomo alza lo sguardo all'improvviso e incontra i miei occhi neri con i suoi altrettanto scuri, ma percorsi da venature di vitalità. Piega il capo di lato mentre si sistema meglio sulla sedia. «Niente di che perché non ha importanza o niente di che perché non ne vuoi parlare?»
«Entrambe» mi occorre un po' di tempo a rispondere, nemmeno io so la verità. Dio, possibile che non conosca me stessa? Che non sia in grado di capire come affrontare questa situazione?

«Se non ha importanza, però, non dovrebbe essere un problema parlarne» l'uomo solleva l'angolo destro della bocca e parla con un tono di voce tale da trasmettermi un senso di calore e accoglienza che non provo più nemmeno a casa mia.
«Qualsiasi cosa lo riguardi è importante, ma questa non particolarmente. È solo meno importante» borbotto, colpita nel vivo, e mi mordo l'interno della guancia per cercare di nascondere questa ennesima bugia con un colpo di tosse che mi permette di coprirmi parzialmente il viso.
«D'accordo» l'uomo scrive freneticamente sul suo blocco appunti, la sua espressione è tanto concentrata che sono tentata di fermargli il polso con la mano e dirgli di andare più piano. O direttamente di smettere di scrivere. Sono tanto strana da essere fonte di un oceano di appunti?
Finalmente il terapista smette di scrivere e si risistema gli occhiali sul dorso del naso. Ora la sua mano è sporca di inchiostro nero come un assassino ha le mani sporche di sangue dopo aver pugnalato la sua vittima. Ma la sua voce non è trafelata né spaventosa quando mi parla di nuovo. «Che cosa provi quando pensi a lui?»

Ecco la domanda delle domande. A questa non so dare risposta, non so neanche da dove iniziare per spiegare come mi sento, non so come etichettare le mie emozioni, le mie sensazioni, i miei pensieri. Di fronte a queste parole sono completamente disarmata. «Non sono in grado di spiegarlo»
«Puoi provarci, per favore?» chiede, avvicinando la sedia al tavolo per avere una visuale ancora migliore su di me. Mi sbilancio inconsciamente indietro, sento lo schienale della sedia dietro di me. Mi ci appoggio, grata di avere un supporto. «Non ci riesco» affermo.
«Fai almeno un tentativo» mi incoraggia l'uomo. Ma perché i miei genitori si ostinano a perdere tempo e spendere denaro per farmi passare due ore a settimana con una persona che mi dice cose scontate?
«Ci ho già provato» quello che non ho provato a fare è stato impegnarmi. Perché il dolore mi ha impedito di farlo, e perché il mio istinto di sopravvivenza me lo ha categoricamente vietato.
«Riprovaci» questa volta il suo tono é tanto incalzante da suonare quasi maleducato alle mie orecchie. Nel tentativo di una rudimentale protezione, mi stringo le gambe al petto.

Non mi interessa se é maleducazione o se non è ciò che ci si aspetterebbe da una persona della mia età, voglio solo che quest'uomo mi lasci in pace. Me ne voglio andare il prima possibile qui. «È da un mese che ci provo» mormoro.
«Va bene, scusami» il terapista si passa una mano sulla fronte, rilassando le spalle e sospirando appena. Forse si è reso conto di avere a che fare con un caso disperato, o forse non si aspettava una reazione del genere da una ragazza adulta. «Ti piace scrivere?»
Sollevo lo sguardo di scatto, sentendomi chiamata in causa. È una domanda casuale la sua, vero? Osservo l'uomo per qualche secondo, e lui si lascia guardare. Mi sto comportando come un animale selvatico, devo smetterla di fare così. «Sì. Scrivevo»
«Hai smesso?» L'uomo riprende a scrivere sul suo blocco, ma questa volta lo fa più lentamente, quasi cose se avesse paura che possa attaccarlo. Non sono mai stata un predatore. Mi sono sempre limitata a scappare dal pericolo come ogni preda che si rispetti usa fare. Quando stavo con il mio ragazzo, invece, ero riuscita a trovare il coraggio e avevo smesso di scappare. Poi, le cose sono degenerate.

«Da quando ci siamo lasciati ho un blocco» ammetto, evitando di nuovo lo sguardo del terapista.
«Credi di poter scrivere quello che provi, visto che a parole non riesci a farlo? Dover creare un discorso che resta richiede più ragionamento che il semplice parlare, magari potrebbe aiutarti sia a riprendere a scrivere e sia a capire come ti senti»
«Non lo so» scrollo le spalle, cercando di allontanare dalla mente la voce che mi sta gridando contro quanto sia bugiarda. Ho passato ore intere davanti ad un foglio, allo schermo del computer, china sul cellulare. Ma non sono mai riuscita a scrivere una sola parola.
«Puoi provare a scrivere qualcosa per la prossima seduta, quindi?» Il sorriso di quest'uomo è talmente caldo e rilassante che non posso fare a meno che sentirmi un po' più a mio agio. Però non posso guardarlo troppo a lungo, altrimenti la piega perfetta delle sue labbra cambia espressione e diventa inquietante. Abbasso le gambe e mi rimetto a sedere in modo composto, schiarendomi la voce per fare in modo che non tremi troppo. «Vedrò cosa riesco a fare»

«Grazie» sospira, sollevato. «Ora iniziamo con la terapia. Mettiti comoda e chiudi gli occhi, cercando di rilassarti. Da questo momento in poi, non parlare più e concentrati sul silenzio. Devi riuscire a liberare la mente prima di poter passare al prossimo passaggio»

Mi concentro sulle istruzioni del terapista, e inizio cancellare le immagini che la mia mente fornisce nonostante queste tornino più vivide e con più vigore ogni volta. Sento l'ormai familiare sensazione della gola che si chiude e gli occhi che iniziano a bruciare.
«Hai la mente sgombra?» Sento la voce del terapista arrivare da lontano, e annuisco. Nella mia testa, impedisco al cervello di lasciare scappare il ricordo del suo volto assonnato alle sette di mattina.

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