Capitolo uno

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Camila non faceva altro che guardarsi allo specchio. Quelli erano sempre i suoi occhi marroni, le sue minute labbra, il suo incarnato caramellato, ma lei non ci scovava più niente di suo.

Vedeva la malattia mangiarla, giorno dopo giorno, sfigurandole il volto. Soleva toccarsi le guance, delicatamente, per sincerarsi di essere ancora viva e reale, che il suo riflesso non fosse un'ombra evanescente che sarebbe scomparsa fra le gocce della flebo o i camici troppo lunghi che calpestava con il tallone e le lasciavano scoperto il di dietro.

La sua camera era diventata una camera ospedaliera da quando le gambe le avevano giocato un brutto scherzo, piegandosi improvvisamente. Si era aggrappata alla casetta, riuscendo a sostenere il peso anche se le braccia non erano più forti come una volta e le stavano attaccate al busto come due ramoscelli secchi che stormiscono al vento.

A fatica, con i denti digrignati, si era rimessa in posizione eretta, ma durante la caduta, aveva sbattuto il ginocchio violentemente contro il pavimento e il livido violaceo era stato testimone infallibile.

Sua madre, Sinu, aveva contattato subito il medico che aveva in cura Camila. Il dottore Jerkins. Le aveva consigliato riposo assoluto; era normale che dopo la chemioterapia il paziente si sentisse spossato. Aveva prescritto delle vitamine e del potassio per fortificarla.

Come se bastasse il potassio a sconfiggere la leucemia. Aveva pensato Camila, sbuffando sarcastica.

Il dottore Jerkins le stava simpatico, si era dimostrato molto più affabile di tutti gli altri che aveva conosciuto, ma anche lui aveva un'irrimediabile pecca. Aveva origliato una conversazione, qualche mese prima quando si era recata in ospedale per un abitudinario controllo, e il dottore aveva chiaramente detto "vostra figlia non ce la farà". E ancora oggi, quando l'accoglieva nel sul studiolo, sorrideva giulivo e a braccia aperte proclamava "ti vedo in gran forma!".

Che grandissima faccia di culo. Ponderò Camila, riesumando l'avvenimento reiterato.

Ora, approssimativamente, si sentiva meglio. Riusciva a fare le faccende in casa, accompagnata da sua madre poteva anche andare al supermercato. Sentiva che l'energia tornava a scorrerle nelle vene, ed era ogni giorno più impaziente di togliersi la flebo, indossare dei jeans e il maglione che aveva stivato nell'ultimo cassetto dell'armadio                -conservandolo per le grandi occasioni- e uscire a fare una passeggiata da sola.

In realtà, senza dirlo ai suoi genitori, avrebbe tanto voluto andare a vedere una partita di baseball!

Ricordava che da piccola, suo padre la portava ogniqualvolta che aveva un giorno libero. Compravano il contenitore più grande di nachos che avessero a disposizione, abbondavano con il formaggio e sgranocchiavano durante la partita. Dopo che rimanevano solo le briciole, ordinavano anche un hot-dog. Ma la cosa che le mancava di più era inveire sui giocatori, fare la ola tutti insieme torcendo l'intero stadio come un lombrico. Le mancava urlare e strepitare, e a causa della sua vitalità difettata non le era stato più ammesso prendere parte alle partite.

Camila sapeva che presto avrebbe ritrovato le forze, se lo sentiva! E allora niente l'avrebbe fermata dal vedere i Red Sox, orgoglio della sua Boston.

«Mila, posso entrare?» Domandò sommessamente sua madre, bussando cauta alla porta.

«Un attimo.» Rispose Camila, ancora stagliata davanti allo specchio.

Sua madre le aveva categoricamente impedito di alzarsi da letto, ma quando mai l'aveva ascoltata? Strascicò i piedi per non produrre rumore con i passi, si sedette sul letto e portò prima una poi l'altra gamba sotto il lenzuolo.

«Ok, vieni.» Le diede il permesso, fingendo di essere intenta a cambiarsi la vestaglia.

Sinu entrò di soppiatto, ma quando la vide con le braccia alzate e la testa incastrata, accorse ad aiutarla.

Until TomorrowDove le storie prendono vita. Scoprilo ora