11. Via di fuga.

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Terzo giorno

«Ancora!» Avevo perso il conto di quante volte avessi sentito quella parola nell'arco di cinquantadue ore.

La testa mi stava esplodendo, i muscoli delle gambe volevano cedere e quelli delle braccia arrendersi alla gravità, mentre pensavo solamente da quanto tempo stessi in posizione senza che nulla fosse cambiato. Un lavoro di concentrazione, di concentrazione e ancora concentrazione. Non dovevo far nient'altro che pensare al tempo da bloccare o pensare di bloccare il tempo, era quello il mio lavoro, incessante, da ore. Respiro affannoso e occhi affaticati mostravano quanto fosse debole il mio corpo alle variazioni di energia.

Sapevo come avrei dovuto sentirmi e credevo che una volta raggiunto l'apice del mio potere sarebbe stato poi tutto più facile, ma in quel momento non riuscivo nemmeno ad avvertire il grigio sottrarsi ai colori della realtà. Digrignai i denti poiché avevo la consapevolezza che nulla stava andando per il verso giusto. Eppure, era stato così semplice in passato.

«Ancora, Delaney! Devi crederci!» Il bastone di Sander scandiva i secondi inesorabili, quel ticchettio aveva invaso persino i miei ricordi più preziosi. L'onda sonora serviva a far risonare la mia anima, diceva.

Non ce la facevo, non potevo farcela, non ero capace. Sentivo il peso nella mia testa, sulle mie spalle tese e sulle mie ginocchia. Era troppo per me e io non ero nient'altro che una principiante.

Portai le mani a coprirmi le orecchie, non ne potevo più, non volevo sentire quella voce che rimbombava tra le mura di mattoni e metallo. Volevo solo urlare, dirgli di smetterla, che sarebbe bastato così e che non doveva nutrire alcuna aspettativa su di me.

«Delaney, devi provarci ancora!» Ciò che fino a quel momento era stato il brusio di sottofondo dei miei pensieri, si era rivelato essere l'ennesimo grido di Sander. M'incitava a non fermarmi: era feroce e famelico, tutto il contrario rispetto a ciò che la mia anima bramava. L'uomo fece volteggiare il suo bastone più volte in aria assicurandosi di darmi il giusto tempo nella respirazione e nel ritmo delle contrazioni muscolari. Il legno di faggio sul parquet era diventato così fastidioso.

Sbattei le palpebre per ritornare alla realtà, a quella vera, quella in cui la disperazione aveva preso il sopravvento e io non avevo nessun tipo di potere. Mi sentivo incapace e persa. Persa nell'autocommiserazione, persa nella convinzione di trovarmi in un mondo che non mi appartenesse e in cui mai sarei risultata perfetta. Mi stavo lentamente capacitando di come io fossi solo uno scherzo della natura uscito male.

Non ero né umana, né una viaggiatrice.

M'inginocchiai sul pavimento poggiando i palmi poco più avanti. Inarcai la schiena ignorando l'ennesimo urlo del mio istruttore. Eravamo rimasti solo noi in quella enorme aula austera. Non mi aveva dato un attimo di tregua: le uniche pause che ero riuscita ad avere erano dovute a Kit che passava per potermi lasciare qualcosa da mettere sotto i denti. Persino la notte nella mia stanza credevo di avvertire ancora le grida di Sander che mi imponevano di provarci nuovamente. Chissà quante ore erano passate dall'ultima volta che Kit era apparso in mio soccorso. Chissà da quante ore fallivo miseramente.

Ripercorsi con la mente le mie azioni in quello stesso spazio: immobile tentavo di fermare un qualsiasi oggetto o spezzare qualche equilibrio. Sembrava così facile per i ragazzini che mi avevano circondato a ondate durante quei giorni. Potevo essere considerata come una mera spettatrice: avevo visto quei bambini riuscire a bloccare il tempo senza la minima difficoltà, anche solo per qualche istante. Avevo inquadrato la bravura di altri nel teletrasportarsi di qualche centimetro o quella di chi ricompariva qualche secondo più tardi alle mie spalle. Quei dannati braccialetti azzurri e rossi non avevano smesso un attimo di suonare.

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