40. Rewind.

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Trentaquattresimo giorno – II volta


Ripescata dall'oblio della morte, ripresi a respirare.

Il vuoto era quello che avevo vissuto. Il gelo era quello che mi era stato impresso nelle ossa. Ma era la vita quella che avevo riafferrato tra le mie mani a un soffio dall'essere persa per sempre.

"Come è possibile?" pensai impunemente sbattendo le palpebre e incespicando nel mio stesso corpo. Rotolai su me stessa cadendo per terra rovinosa.

Avevo avvertito la dolenzia del gesto e il metallo strisciare contro la mia pelle umida e imperlata di sudore. I ciuffi ramati erano incollati alla fronte, mentre le mie mani cercavano di farsi strada in quel nuovo vecchio mondo.

Ero morta.

Lo ero per davvero.

Strisciai in terra gemendo. Ogni respiro era sia una benedizione che una tortura. Avevo il torace in fiamme, dolente e urlavo stringendo i denti tra loro nella speranza che smettessi di sentire la mia carne dilaniata.

Mi strinsi nel dolore, afferrandola nel punto in cui era più rovente, ma nulla i miei occhi riuscivano a scorgere. Tutto quello che provavo era solo il ricordo di una vita precedente.

Mi poggiai retta sulla schiena contro la parete marmorea con la speranza di stemperare il mio malcontento. Affannosamente riprendevo l'aria che mi era stata sottratta, digrignando i denti. Ma non avevo idea di cosa fosse accaduto, di come avessi fatto a fuggire al più antico dei quattro cavalieri.

Poi all'improvviso mi fu tutto più chiaro: il bagliore vermiglio che proveniva dal mio bracciale ne era conferma. Era stato tutto un sogno, un maledettissimo e vivido sogno che si sarebbe trasformato in realtà.

Ingoiai la saliva acida mista al ferro che ancora avvertivo in bocca. I miei poteri si stavano espandendo a dismisura. Secondo quanto dettomi da Sander, se non avessi fatto attenzione mi avrebbero consumata. E forse quel dolore era la prova vivente che più la mia magia veniva fuori, peggiori sarebbero state le conseguenze.

Ma ciò non mi importava. Non in quel momento.

Notai ai piedi del letto una scatolina intonsa giacere. Deglutii afferrandola d'istinto e scartandone il contenuto. Nel riflesso della spilla della squadra alfa ebbi la risposta alle mie domande. Con la faccia contrita e il petto terso la stritolai tra le mani promettendo che quella volta non avrei perso nessuno di loro, mentre una lacrima calda rigava il mio volto.

Mi buttai fuori dalla stanza pensando a cosa avrei dovuto fare. Ogni passo era una tortura. Seppur non erano visibili lesioni, il mio corpo soffriva per ciò che ancora non era accaduto. Dovevo raccogliere le idee e pensare alla migliore strategia.

Giunta d'innanzi il parapetto che segnava il limitare dei piani sapevo che avrei dovuto intraprendere la scelta più importante: scendere o salire?

Ingoiai la saliva, trattenendo il labbro inferiori tra gli incisivi. Affondai i denti in profondità avvertendone ancora una volta il sapore deleterio.

Non avendo fatto colazione, non ci sarebbe stato alcuno scambio di compiti con JJ e pertanto neanche la possibilità di avere accesso al dipartimento di tecnologia e sviluppo. Il cuore mi suggeriva di correre dagli altri e ammonirli su quanto sarebbe accaduto, ma la mia testa mi impediva di farlo: avrei potuto sfruttare meglio il mio vantaggio. Sapevo le mosse future di tutti loro, perciò dovevo pensare a come intercettare i ribelli.

Pensa, Delaney, pensa.

Avevo a disposizione meno di venti giri di clessidra per farlo.

Mi illuminai di colpo.

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