17 - Dove rimedio una famiglia

1.9K 91 21
                                    

17 - Dove rimedio una famiglia

Fu una mia idea, lo so. E mi sentii stupida per aver sottovalutato un dettaglio piuttosto rilevante: Abaste non sapeva parlare. A parte gli “argh”, l’unico altro modo che usava per comunicare era far mulinare i pugni chiusi come mazzafrusti, il che non mi rendeva entusiasta all’idea di una chiacchierata.

Ma uno dei simboli sacri di Atena era l’ulivo, un segno di pace. Quello era il vero significato della mia presunta “saggezza stoica”: la pace. E io non avrei combattuto contro un poveraccio che aveva passato l’infanzia relegato negli Inferi solo perché una profezia mi diceva che sarei stata “la sua catena”. 

La sua catena. Mi venne un’idea folle e le parole della profezia assunsero un nuovo, inedito, significato. 

Guardai Abaste dritto negli occhi lattiginosi che si ritrovava infossati in qualche parte della faccia bitorzoluta, e dissi: ― So quello che ti ha fatto Atena.

Mi soppesò con lo sguardo ed optò per un rabbioso “argh!”. ― Sei stato costretto a vivere nell’Oltretomba per tutto questo tempo. Ti hanno tenuto prigioniero, in catene. Avevano paura di te.

― Annabeth! Che fai? ― Percy era incredulo e si agitava come un pollo con l'orticaria.

Lo zittii con un gesto della mano, senza staccare gli occhi da Abaste. Non era il momento di dare spiegazioni, né quello per distrarsi.

Abaste inclinò la testa di lato, come un cucciolo di cane. Il cervello rimbalzò nella sua calotta cranica come un’immensa gelatina andata a male da un pezzo. Mi resi conto in quel momento che avevo le dita delle mani impiastrate di melma grigiastra per aver fatto un tuffo nella sua testa. Rabbrividii di disgusto. Cercai di pulirmi rapidamente sui pantaloni, con movimenti dall’esito dubbio.

― Posso garantirti la libertà ― dissi ad Abaste. ― E in cambio ti chiedo di non distruggere il mondo. E Percy. Non so se per te è incluso nel concetto di mondo, ma… ― Okay, non mi sembrava il caso di arrivare a confidenze così intime per una contrattazione di pace. Drizzai un po’ la schiena, e continuai. ― Non sarai più tenuto prigioniero. Potrai uscire dagli Inferi ogni volta che vorrai, sarò…

“Sarò la tua catena”, pensai. Era veramente la cosa più stupida che avessi mai fatto in vita mia. ― Sarò la tua baby-sitter.

Con la coda dell’occhio, vidi Percy barcollare appena alla mia dichiarazione. Vortice gli scivolò di mano, e non fece niente per raccoglierla dal manto di neve che copriva Central Park. 

Abaste sembrava perplesso. Mi venne il dubbio atroce che fosse anche sordo, oltre che analfabeta, o che non comprendesse la mia lingua, o che non volesse affatto una baby-sitter, una catena metaforica, o… una sorella. 

Come sorella, bisogna essere sinceri, non ero un granché. Avevo due fratellastri più piccoli dalla parte umana della famiglia, ed innumerevoli sorellastre e fratellastri semidivini. Ma ero stata veramente una sorella soltanto per una persona, con cui non avevo avuto nemmeno un genitore in comune: Luke Castellan. 

Luke era morto nello scontro contro Crono. Era stato posseduto dal titano e… beh, era un eroe. Si era sacrificato per tutti noi. Si era sacrificato per me. Perché eravamo una famiglia, ed essere una famiglia implicava quello, il sacrificio. Questo era quello che mi aveva insegnato Luke. E questo era quello che cercavo sempre di tenere a mente per non far scivolare nell’oblio il ricordo dei suoi capelli biondi tagliati corti, dei suoi occhi blu elusivi, della cicatrice profonda e pallida che gli percorreva la guancia partendo dall’occhio sinistro per arrivare al mento.

Il senso della famiglia, il senso del sacrificio… senza neanche saperlo, Luke mi aveva preparato per affrontare questo momento. Senza neanche saperlo, in qualche modo, era di nuovo lui l’eroe della profezia. Era la mia catena, lo sarebbe stato per sempre. Così come io sarei stata quella di Abaste.

Annabeth Chase e il flagello di AdeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora