9 - Dove parliamo con un quadro

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9 - Dove parliamo con un quadro

Alle otto e trenta spaccate, Nico si mise ad urlare come un ossesso. Non pretendevo la colazione a letto, ma un risveglio non traumatico sarebbe stato alquanto gradito. Avevo fame, ancora sonno, mi facevano male le ossa neanche fossi stata una vecchia di cent'anni, e... avevo Percy appiccicato addosso come una cozza su uno scoglio. Per la cronaca, sbavava mentre dormiva.

― Abbiamo dormito per più di quattro ore! ― stava urlando Nico al colmo della disperazione.

Diedi una gomitata a Percy. ― Svegliati, Testa d'alghe

― Uhm...

Non avevo nessuna voglia di precipitarmi negli Inferi di prima mattina, ma d'altronde bisognava fare quello che bisognava fare. Mi alzai pronta ad affrontare la gita fuori porta più macabra della mia intera esistenza. ― Muoviti, Percy

― Uhm...

Nico prese fiato e divenne improvvisamente viola. Dallo sguardo che aveva, temetti per un attimo un'incursione zombie indesiderata. ― Percy, per tutti gli dei immortali, alzati da quel maledettissimo letto!

La voce di Nico mandava due messaggi: primo, era in preda ad un attacco di panico bello e buono; secondo, aveva un problema con Percy. O un problema con me? O un problema con me e Percy? Insomma, qualcosa non andava. E non poteva trattarsi solo di qualche ora persa a dormire, perché Nico sembrava sul punto di voler uccidere qualcuno.

― Hey ― lo chiamai con tutta la dolcezza di cui ero capace ― Tutto bene?

Era troppo nervoso per rispondere. Girò i tacchi e uscì dalla stanza sbattendo la porta. "Buon giorno anche a te, Nico", pensai. Percy aveva fatto progressi nel frattempo: si era buttato un cuscino sopra la faccia in un tentativo di mimetizzarsi nel letto.

― Percy, sto per ucciderti ― annunciai con estrema calma. Lui mugugnò qualcosa da sotto il cuscino. ― Se sono le tue ultime parole, sei pregato di ripeterle in modo comprensibile

Il nervosismo di Nico era contagioso. Afferrai il cuscino da sopra la testa di Percy e lo lanciai dall'altra parte della stanza.

Percy strizzò gli occhi cercando di mettermi a fuoco, e provò anche ad articolare una frase di senso compiuto.

― Non sarete troppo di buon umore, stamattina? ― chiese retoricamente.

Capii che sarebbe stato meglio tenere la bocca chiusa, per evitare di dire cose di cui poi mi sarei pentita. Serrai la mascella e seguii Nico di fuori.

Il sole pallido di Seattle mi colpì in pieno viso come una secchiata d'acqua ghiacciata. Avevo ancora impresso nella mente l'incubo che aveva accompagnato il mio tentativo di risposo.

Ero sull'Olimpo, avevo riconosciuto l'architettura dei templi e la disposizione dei viali. La bufera di neve che si stava abbattendo su New York imperversava anche lì. D'altronde l'Olimpo si trovava tecnicamente in cima all'Empire State Building, c'era da aspettarselo. Mia madre camminava verso di me, uno sguardo gelido sotto l'elmo da guerra, ramoscelli d'ulivo spezzati sotto i suoi passi decisi e leggeri. ― Annabeth

Sembrava il comandante di un esercito pronto alla battaglia che avrebbe deciso la guerra, l'espressione seria, i muscoli tesi. Indossava una tunica greca che le scendeva morbidamente fino alle caviglie, bordata d'oro. Sarebbe stata bellissima se non fosse stata tremendamente spaventosa. Impugnava una lancia, le sue nocche erano esangui nella stretta, e sembrava intenzionata a infilzare chiunque si fosse presentato sul suo cammino senza previo invito. ― Mamma

Al suono della mia voce, la neve si era fatta improvvisamente più fitta, e l'immagine di Atena era diventata più difficile da focalizzare. Il cielo oltre l'Olimpo era talmente scuro da dare l'impressione che il sole non sarebbe sorto mai più. Mia madre si era fatta largo attraverso la tormenta, era riuscita a raggiungermi. ― Ferma Ade ― aveva detto ad un passo da me.

Annabeth Chase e il flagello di AdeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora