Ciao. Che parola strana, non trovi? Ma ti saluto comunque, dicono che è educazione.
Io non ne ho mai ricevuta una, non ho mai avuto dei genitori. Non sono nemmeno mai andato a scuola. Non so chi tu sia e non penso di avere un nome io a mia volta. Qui mi chiamano tutti 33.
Ho trovato il tuo indirizzo nei registri di questo orfanotrofio. Non so chi lo gestisce, so solo che sono chiuso qui da...
Tutta la vita praticamente.
Non so nemmeno se tu sia ancora vivo, o viva se sei una donna, ma io utilizzerò il maschile per comodità, nei tuoi confronti.
Non ti racconterò come mi sono procurato carta e penna, del sangue che ho dovuto versare.
In parte penso fosse anche mio.
Ti dirò solo che avevo bisogno di parlare con qualcuno. Per dire qualsiasi cosa. Avevo bisogno di parlare, ma non ai muri.
Forse sarai la mia salvezza.
O la mia condanna, se mi scoprono.
Sai, un tantino inizio ad avere paura.
Di me. Di te. Di noi.
Di quello che succederà se riuscirai a salvarmi.
O se riuscirò a fuggire.
Anche se non sto rischiando quel briciolo di sicurezza che avevo per chiederti questo.
Non so nemmeno se esisti.
Magari sei il solo frutto della mia fantasia ed io sto scrivendo all'aria.
Magari sto scrivendo all'aria comunque, perché sei morto.
O, magari, sto immaginando tutto, anche il semplice fatto di scrivere.
Che possibilità, mi sembra quasi surreale.
Certo, non possiamo parlare veramente e non so se questa lettera ti arriverà mai. Quindi, come vedi, sto rischiando tutto per un' incertezza. Sono pazzo?
Qui direbbero di sì. Lo fanno sempre.
Si affacciano da quelle finestrelle, mostrando solamente gli occhi, neri come il buio mi pare, ma qui è tutto buio.
Ci tormentano con le nostre paure, con le nostre storie. Sento gli sventurati delle celle vicine, perché celle è l'unico modo per definirle, urlare.
Li sento sempre. E so che loro sentono me, le mie urla. Una consapevolezza straziante. Sanno quando soffro. Sempre. Lo sanno tutti. Sanno quanti sono i miei tormenti, ormai hanno imparato a distinguere le differenti urla. Le mie urla. Da quella degli altri e dalle altre mie urla. Perché io di tormenti ne ho tanti. La morte dei miei genitori, il modo in cui è accaduto, chi ne fu responsabile, perché sono qui, perché non so chi sono realmente, perché ci tengono sempre al buio, che io ho imparato a temere, il fatto che sono sempre solo e il fatto che ci trattano peggio di animali, anche se l'ultima non la citano mai, ovviamente. Odio il fatto che l'unico contatto umano che ho sono quegli occhi, pieni di odio, e quelle urla, disperate. Odio il fatto che gli altri odano le mie urla a loro volta. Odio il fatto di urlare. Odio il fatto che siano "loro" a farmi urlare.
Il fatto che coloro che hanno deciso di accoglierci, tutti noi, e di crescerci lo abbiamo fatto per il semplice gusto di farci urlare e di far sentire le nostre urla agli altri. Come per farci ancora più male. Perché tutti odiano far conoscere il proprio dolore. Perché tutti odiano soffrire. Io odio tutti.
Forse odierei anche te se ti conoscessi. Ma non ti conosco e non posso odiarti.
E poi ho bisogno di parlare, con chiunque.
Mi ascolterai? È questo che ho bisogno di sapere.
Avrò qualcuno? Dimmi di sì, dimmi di sì, dimmelo.
Non dirmi di no, non farlo. Ti prego. Aiutami e ascoltami. Ho bisogno che qualcuno mi ascolti. Sarai tu quel qualcuno? Spero di sì, non voglio cercare ancora. Non voglio aspettare per liberarmi di questo orrore.
Ora devo andarmene, non per sempre spero.
Cercherò di scriverti ancora, se sarai d'accordo.
Ho una domanda da farti. Importante.33

STAI LEGGENDO
33
General FictionUn orfano, prigioniero dei suoi "tutori". Si può usare la parola prigioniero? No, perché è quello che sono. Un prigioniero, insieme a tanti altri. È sto impazzendo, in questa mia prigione. Mi tormentano, in questa mia prigione. Come? Lo scoprirete...