20. Gash

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Nancy Whiskey Pub, 10 Aprile
Ore 00.53

Non l'aveva persa di vista un attimo da quando quel ragazzo, il più giovane tra tutti, l'aveva presa e sbattuta per terra fino a farle perdere i sensi.
Era lì inerme per terra, lontana da lui. Era incapace di fare qualsiasi cosa, urlava, chiedeva di smetterla, ma in cambio riceveva solo risate e botte in testa.
Era colpa sua, lui l'aveva messa in quella situazione. Non l'avrebbe mai perdonato, e lui non avrebbe mai perdonato se stesso per ciò.

«Cazzo, è già svenuta, la bambolina» commentò il più giovane per poi girarsi verso Connor. Lui stringeva i denti come se in mezzo ad essi avesse le teste di tutti quei basardi. Li avrebbe uccisi con le sue stesse mani, se solo avesse potuto.
Camminò in direzione dell'agente che era rimasto in ginocchio, tenuto fermo dal secondo ragazzo.
Si piegò alla sua altezza, spingendogli la testa all'indietro per dargli fastidio.
«E con te, cosa dovremmo fare, mh?»
Continuava a punzecchiarlo.
A quel punto avrebbero anche potuto ucciderlo, non gli importava più.
Aveva rovinato la vita di Mya e di conseguenza la propria. Non sarebbe vissuto con quel peso sul petto.
«Non possiamo mica ucciderti, ora che sappiamo chi sei.»

Lo avrebbero torturato fino allo sfinimento.

Il ragazzo gli sferrò un pugno in pieno volto piegandogli il capo di lato.
Un gusto metallico fece venire un conato a Connor portandolo a sputare per terra.
Sangue.
Lo sentiva gocciolargli lungo l'arco di cupido, superando le labbra, fin sotto al mento.

Sputò in terra la saliva rossastra per poi lanciare un'occhiataccia al ragazzo.
Lo avrebbe picchiato fino allo sfinimento, e lui non avrebbe posto resistenza.
Gli prese la testa fra le mani per poi spingerla verso il suo ginocchio, l'impatto fu doloroso, atroce. Connor cadde in terra senza fiato. Strinse il labbro inferiore tra i denti per evitare di urlare, di dargli quella soddisfazione.
Lo avrebbe lasciato fare, ma non gli avrebbe mostrato il suo dolore.

«Cazzo di sbirro» sputò il ragazzo digrignando i denti.

Si allontanò un attimo per poi tornare indietro, prendendo la rincorsa. Gli sferrò un calcio nello stomaco.
Connor si piegò in due dal dolore, aprì la bocca senza emettere alcun suono, il respirò gli mancò.
Il colpo fu potente, lancinante.
Non riuscì a rimanere in ginocchio. Cadde di lato con un tonfo.

Cazzo.

Il vomito fu imminente. Rimise liquidi, il fiumiciattolo che si era creato gli scorse accanto bagnandoli la guancia di bile.
Lo stomaco gli bruciava così come ogni parte che era stata colpita con prepotenza. Le guance, il naso, il mento e il nervo lungo la gamba.

Guardò il copro inerme di Mya, chiedendosi quando si sarebbe svegliata. E se si sarebbe svegliata.
Era cosciente del fatto che si fosse comportato male con lei durante tutta l'indagine, lei lo aveva sopportato, nonostante lui si accanisse contro di lei, contro il mondo, e gli era stato vicino nel momento del bisogno, aveva pianto con lei, e lei aveva pianto con lui, per la prima volta.
Era stato perfetto, se gli avessero chiesto con chi avrebbe preferito passare la notte della morte di sua figlia, lui avrebbe scelto dieci, cento, mille volte lei.

Connor si rimise in ginocchio.
Il ragazzo si girò verso il terzo uomo, quello che aveva bloccato Mya, gli fece un cenno con la mano, lui capì al volo lanciandogli un oggetto appuntito.
Sono quando gli si avvicinò al viso, Connor capì cosa fosse: un coltellino.
Lo impugnò, con la lama rivolta verso l'agente, più precisamente, rivolta verso il suo viso.
Il ragazzo prese Connor dal collo e lo strinse, alzando la faccia verso di lui, in modo tale che potesse guardarlo negli occhi.
Quegli occhi così bisognosi di sangue.
«Vediamo come sta un bel tatuaggio sulla tua faccia di merda» disse muovendo la lama in aria, come se fosse un pennello.

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