Capitolo III - La tempesta

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Quella nube s'appropinquava sempre di più. Per un istante destò la mia perplessità; solo in seguito capii che si trattava d'una tempesta di sabbia.
«Una tempesta in arrivo! Una tempesta!», urlò alla squadra il colonnello, ingiungendo poi di munirci delle maschere antigas, «siate celeri ad indossare le maschere, la nube potrebbe contenere fattori patogeni».
Subitaneamente aprii lo zaino rimasto chiuso per l'intero mattino, afferrai la maschera e la strinsi al capo: ormai la tempesta era a meno d'un chilometro da noi, si ergeva come un muro di sabbia alto metri e metri, che, incombendo, non risparmiava nessuno, poiché la pietà era ormai sconosciuta al mondo intero, in quel brano di terra che mi doleva chiamar mondo.
«Colonnello!», gridò Ronald visibilmente preoccupato, «la cerniera! È rimasta bloccata! Lo zaino... Lo zaino non si apre!». La quiete lasciò spazio a un'imprecazione del colonnello, «merda!», poi fummo avvolti da un'oscurità di turbini.
Non si scorgeva nulla, il cielo era piceo, il sole che sino a poco tempo addietro ci costernava era ora impercettibile, si sentiva soltanto il furore della sabbia, che con impeto sovrumano tagliava la pelle, si faceva spazio tra le pieghe degli abiti cocenti. Una lagrima fiorì da tanto dolore, scendendo sulla gota rosea di pianto per poi divenir parte della tempesta, un umido granello di sabbia. Per mia fortuna la maschera teneva al sicuro gli occhi, permettendomi, anche se con passo insicuro, di procedere, mentre cercavo di non perder mai di vista il colonnello e gli altri uomini.
Ronald, nel frattempo, aveva tentato di coprirsi il capo nel migliore dei modi, indossando occhiali da sole e avvolvendo d'una lunga pezza nera il naso e la bocca. Era chiaramente lancinato dai granelli di sabbia taglienti come lame, che  raggiungevano ora un occhio ora l'altro.
La tempesta aveva portato seco una gran quantità di detriti, nel deserto si videro volare pezzi d'auto o di tetti, così come qualche arbusto, segno, questo, che essa aveva attraversato qualche centro urbano.
Una sferzata di vento flagellò il colonnello, che vide cadersi lo zaino di spalla; avrebbe voluto piangere, ma l'onore che portava e il pericolo cui venivamo incontro non glielo permettevano. Aveva perduto lo zaino contenente il maggior numero di viveri necessari per noi uomini: gli altri infatti portavano i sacchi a pelo, gli strumenti per l'orientamento oppure i sistemi di comunicazione ormai agonizzanti; pochi erano i soldati che recavano cibo o acqua e, senza mezzi di sostentamento, come saremmo sopravvissuti, lì, nel bel mezzo del nulla, per altri nove giorni? Qualcosa mi diceva che non saremmo mai più arrivati a Pechino, ma non feci in tempo a pensarlo che il colonnello ordinò di rimetterci in marcia, senza soffermarci su inutili distrazioni, nonostante che a me morire d'inopia lì non paresse poi un argomento di cui non ci si sarebbe dovuti preoccupare. Giunse poi un'altra frusta di sabbia, il dolore che m'arrecò fu tale che la pelle parve dilacerarsi dinanzi a quell'impeto, dandomi la sensazione che i pori della cute si allargassero per poi empirsi di granelli di sabbia. Immantinente riposi questi pensieri nelle latebre del mio animo e diedi nuovamente ascolto al colonnello Amaldi, «il vento sembra aver perduto intensità, dovremmo esser giunti alla fine della tempesta»; preferii non credere alle parole di quell'uomo, che mai m'aveva incusso fiducia, dacché eravamo in quell'inferno già da circa due ore e non speravo più che potessimo salvarci. Ma mi sbagliavo: fummo nella tempesta per almeno un altro quarto d'ora, poi quei venti mortiferi mutarono soavemente in leni zefiri, ritornarono i dolci turbini di sabbia del mattino e quel muro impietoso che ci aveva travolti era ormai scomparso.
Dovemmo però portare dei segni: come chi porta un tatuaggio vuol lasciare un segno del proprio passato, noi portammo le pieghe sanguinanti del viso. La sabbia, infatti, insinuandosi vorace nei due buchi della maschera che denudano le guance, l'aveva atrocemente tagliato. Non ci lavavamo da giorni, cominciavamo ad emanare un puzzo per nulla gradevole, i nostri volti erano, oltre che insanguinati, a tratti neri di sporcizia, ma non potevamo certamente utilizzare quel poco d'acqua potabile che ci rimaneva per sciacquarci, anzi, sarebbe stato un peccato.

«Abbiamo perduto una notevole parte dei viveri per via della tempesta», ci disse, quasi sussurrando, il colonnello, cui seguì un lungo silenzio. Era chiaro che non potevamo resistere per altri nove giorni. Pechino non era più il capolinea, dovevamo cercare una città più vicina in cui fare rifornimento d'acqua e di cibo, sempre a patto che non saremmo morti lì, prima di giungere al luogo della nostra agognata salvezza.

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