Capitolo XX - Angeli caduti

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Lo scricchiolare del terreno circostante donava forma all'etra vacuo di quelle ore scure.
Sotto la guida del colonnello, che ancor d'ardimento sento fiammare, ci celammo all'oste tra gli edifici, né sapevamo chi fosse né tanto meno che cosa volesse. Ma quanto più paventavamo era l'odio che ne iniettava i movimenti ratti e repentini.

Caricammo i fucili, ben saldando al viso la maschera, scaturigine della nostra vita.
Poi aspettammo. Ci trovavamo tra la vecchia banca e un fatiscente condominio, le forze sparte entro pochi vicoli.
Non avremmo attaccato finché non saremmo stati attaccati. Questi erano gli ordini. Tuttavia, «qualora uno di essi entri nella vostra visuale, sparate».
Il suolo era impregnato dell'umidore graveolente del sudore, mentre l'oscurità ci ottenebrava a chiunque quinci fosse passato.
Giunsero pochi suoni indistinti, e di cui a stento riuscii a discernere per lo meno la substantia. Parevano voci.
«Intendono parlarci», proferì il colonnello.
«Che cosa vuol fare, colonnello?», chiese Leonardo.
«Non daremo risposta alcuna fino al momento in cui qualcuno di loro non si mostrerà allo scoperto. Non sappiamo che cosa stiano ordendo ai nostri danni».
Questa volta il fluire delle parole ruppe il reticolo che cristallizzava l'aria.
«Lo sappiamo. Sappiamo che state morendo di fame».
Colmi di stupore gli occhi di noi tutti s'incrociarono più e più volte. Chi erano?
«Possiamo aiutarvi», rimbombò una cupa voce maschile, «se ce lo permetterete».
«Colonnello, crede che dobbiamo restare ancora in silenzio?», interrogò Joseph quasi illuminato.
«Non sappiamo chi siano. Non possiamo, anzi, non dobbiamo fidarci!», disse di rimando.
«Ma come!», tuonò Alberto, che ostentava una mira ben poco degna d'un soldato della sua staffa, «preferisce che moriamo di fame, quando invece ci si presenta quasi per magia un'occasione di sopravvivere?».
«Esatto, Alberto, sono proprio le occasioni che ti si presentano quasi per magia le stesse di cui non ti puoi fidare».
Alberto tirò un sospiro greve d'arresa. Poi dilaniò il silenzio, mentre le tenebre ci velavano, ancora Leonardo, «colonnello, per quanto io possa esserle fedele, non accetto che venti uomini al suo servizio soffrano la fame. Facciamoci avanti. Se saranno nemici, non esiteremo ad ucciderli».
Il resto dei soldati annuì rumorosamente, chi facendo cenno col capo imperlato, chi parlando in modo da giustificarsi.
Il colonnello tentò di disserrare la chiostra dei denti per proferir parola, ma i detti nemici avevano approfittato della nostra distrazione, passando come lemuri anzi gli occhi di tutti, assorti nel cociore del proprio pensiero, alla fine di quel lugubre vicolo. Erano sagomati dalla luce quali angeli luciferini.
Recavano le armi come muni delle lagrime versate, dell'orgoglio profuso. Destati di terrore gli animi, palpitanti i cuori dinanzi all'urlo teterrimo della morte, afferrammo i fucili, puntandoli contro coloro che ci si facevano innanzi. Anche loro, sebbene con meno timore, ci puntaron contro i fucili carichi. Ma non spararono.

Erano sei. Di questi, uno tra coloro che più si slanciavano parendo numi, parlò.
«Lavoriamo per l'esercito cinese. O, meglio, non più. Come voi, siamo giunti sin qui per cercare salvezza. Pechino è l'Averno: ogni anima stride di redenzione bramando la grazia divina. Restate al sicuro finché potete. Anche noi abbiamo esperto il duolo della fame, ma prima che la morte ci cogliesse siamo riusciti ad accedere a uno degli ultimi bunker rimasti per le truppe di stanza. Ci viviamo da circa tre mesi, ma per ordine del primo maresciallo è necessario fare ripetute ricognizioni intorno alla nostra area, per impedire che il governo ci scovi e che perciò ci uccida».
«Perché? Anche voi siete dei ricercati? Quali crimini avete commesso?», interrogò Alberto.
«Sta' zitto», ingiunse con impeto il colonnello, «non posso assolutamente riporre la fiducia del mio plotone in voi. Chi è il primo maresciallo? Ho bisogno di parlarci. Diversamente nessuno si muoverà da questo posto».
Una femminea labbia si palesò vaga infra i sei soldati. Un inesorabile tacchettio ghiacciò l'aere inturgidito dalla voluttà di vita.
La maschera aderiva perfettamente a quel viso sinuosamente concepito per tali forme. Una crine nerissimo, ondivago e mosso come l'anima umana, in sembianti occultava l'occhio destro, mentre il sinistro, come un nembo grigio intorno all'atra pupilla, volgeva a noi il guardo. Le braccia come le forme conturbati di tanta venustà erano inguainate in un tubino nerissimo, che  pareva reciprocamente compenetrarsi del corpo. Le gambe incedevano elegantemente passando pel minuto spacco della veste, per indi posarsi su due tacchi perlucidi e scurissimi, sorreggenti quelle membra splendide. Mosse delicatamente il collo, deliziosamente orlato d'un nastro nero, cui seguirono come ariste al vento i capelli. Volse il grigiore dei suoi soli al colonnello, mentre le labbra, tinte d'un porpora sfiorito e ferale, pronunziarono, ormai estasiandoci, cotali parole:«Colonnello, non si adiri. Sono io il primo maresciallo». Parlando gli si fece innanzi. Piegò le carni inverso il colonnello, mentre le gambe, sostenute dai tacchi, sembravano prostrarglisi. Col seno decorosamente contenuto nell'abito sfiorò le vene che pulsavano sulla mano del colonnello, così che il fucile potesse toccarle il collo, e il suo pizzo nero.
«Se la paura di morire la spaventa tanto, fa ancora in tempo ad uccidermi, non crede?».
«No... No... Pr... Primo maresciallo, penso proprio che verremo con voi, v... vero?».
Nulla interposita mora, tutti diedero risposta affermativa, così potemmo seguire il primo maresciallo e i suoi alla volta del rifugio.
La donna si mise nuovamente in piedi, pulendosi il collo con le mani ceree, fredde, le cui unghie smaltate di nero l'assembravano sempre più alla materializzazione del pomo origine del peccato.

Mentre le cosce, l'una sull'altra, facevano vibrare l'intero corpo, sin lungo le spalle velate e perfettamente partite dalla colonna vertebrale, il colonnello ardì di chiedere quanto lungi da noi fosse il bunker.
«Ah, non si preoccupi! Siamo a meno di venti minuti di strada!».
«Come mai, primo maresciallo, lei si serve di soli sei uomini?».
«Be', senz'altro posso vantarmi d'aver gli uomini migliori. Sa, molti sono morti per il contagio. Ed altrettanti per la fame...».
«Oh, scherza!? Per quanto tempo siete rimasti digiuni?», domandai con meraviglia, quantunque avessi voluto restare in silenzio, al primo maresciallo.
«Un mese e sette giorni. Siamo arrivati a divorare le carcasse facendole passare per le maschere». In quei momenti un'aura di sollazzo m'investì, pensai invero che si trattasse dello stesso modo cui avrebbe ricorso il colonnello, e di cui avevamo discusso io e Leonardo.

«Primo maresciallo», disse Alberto, «qual è suo nome?».
«Tenetelo bene a mente», rispose, «primo maresciallo Xiu Chen. Xiu Chen».

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