Capitolo XVII - Baci di plasma

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Urlava di dolore. Mentre la suola di plastica delle scarpe da ginnastica d'Izabella gli schiacciava i testicoli. Il viso unto di sudore e le mani protese, in direzione di quel volto mascherato, scuro.
La fanciulla gli puntava la Sig Sauer. Era la volta giusta. Non aveva ucciso Leonardo, ma era il turno di quest'uomo.
Pareva un soldato, e mi chiedevo perché vagasse da solo per quella città, ricettacolo di morte. Si mordeva le labbra consumato dal dolore e dalla paura di morire, per mano d'una ragazza.

Quando ci vide arrivare, puntò quelle sfere azzurre contro di noi. Sembrava rincuorata, ma allo stesso tempo logorata dalla cupidigia del sangue, della vendetta.
«Ah, ben trovati! Vedo che vi siete dati da fare!», asserì ridacchiando.
«Siete arrivati giusto in tempo. Le munizioni... Sì, è carica. Bene, fate largo! Non vedo l'ora che il suo sangue mi sporchi i vestiti!».
Come un'invasata, in una convulsione rabbiosa, fece scrocchiare le ossa del collo, pronta ad uccidere colui che l'aveva rapita. Ormai aveva perduto la propria umanità, era repleta d'ira, d'oscurità.

«No, Izabella. Non lo fare. Potremo ottenere qualche informazione se lo lascerai vivo», urlò il colonnello.
«Che tipo d'informazione, colonnello? Sappiamo tutti che viviamo in una menzogna. Non abbiamo bisogno d'averne conferma. E quest'uomo, questa deiezione della società, è parte di quella menzogna. Merita una morte atroce, senz'amore né pietà. Come mia madre. O peggio».
Il colonnello rabbrividì. Quella non era Izabella, ma un prodotto dell'odio, una vittima del dolore.
Ristemmo tutti a quelle parole.

Leonardo, audacemente, nell'istante in cui la pallottola avrebbe perforato il cranio del malcapitato, corse verso Izabella, scagliandosi su di lei. In questo modo il proiettile variò traiettoria, colpendo uno dei muri circostanti.
Fulmineamente le tolse la pistola; o la situazione sarebbe soltanto peggiorata.
«No!», strillò, «no! Perché l'hai fatto? Perché? Doveva morire. Perché? Avete ucciso Peng e Cai, ma non uccidete chi stava per uccidere me», singhiozzò, «per... Perché?». Scoppiò in un pianto amaro, quale lagrima cadeva sugli abiti sozzi di polvere e sangue, quale macchiava la maschera. Desiderava strappare quell'arnese dal proprio volto, ma la paura, la vista nera della morte parve trattenerla.

Il colonnello e Leonardo aiutarono l'uomo a rimettersi in piedi. Erano bramosi di sapere qualcosa in più sull'alleanza.
Nel frattempo, Izabella, benché amareggiata, si rimise in marcia. Avvolta in un'aura di freddezza che non mi diede l'ardire di confortarla.
L'uomo si sedé su d'un pezzo di cemento, innanzi al gran monumento coi tre cervi.
Quel monumento instava sulla città intera, il marmo rosso ne colmava le pareti, mentre un'altra striscia giallognola delimitava il confine tra la sua e l'altrui materia. In alto, poi, tre cervi aurei si slanciavano verso il cielo, pronti a rincorrere un futuro degno d'esser vissuto, non guardando verso l'ima terra, infeconda, ma alla volta del superno firmamento, che ormai volgeva all'occaso, pronto a rilucere dello scintillio astrale.

La gentilezza del colonnello si spense col sole, nel vuoto freddo dell'Universo.
«Chi sei? Perché hai rapito Izabella?», interrogò il colonnello.
L'uomo abbassò lo sguardo lucido di timore. Non disse nulla.
«Il colonnello vuole sapere chi sei. Parla!», disse Leonardo alterato.
«Non t'irritare troppo, Leonardo. Cambieremo domanda. Magari il nostro amico si deciderà a risponderci», e figgendo col guardo quello del catto uomo, «indossi una divisa, anfibi, una maschera identica alla nostra. Lavori per l'esercito cinese? I tuoi commilitoni sono stati ammazzati e tu sei rimasto da solo alla ricerca di cibo... E forse compagnia, dal momento che hai tentato di rapire una minorenne?».
In quel momento Izabella si voltò, «non direi che aveva bisogno di compagnia. Ha tentato di farmi fuori, stava per tagliarmi la gola. Brutto bastardo».
«Di questo ci darà lui stesso conferma, vero?», chiese Leonardo.
L'uomo mosse la testa in segno di nego.
Poi l'AK-47 si scagliò sul suo viso, animato dall'ira del colonnello, che, stanco d'attendere una risposta, l'aveva percosso a suon di fucile.
La pelle del suo volto divenne livida, poiché la maschera, pur rimanendo aderente al viso, l'aveva sfregiato. Uscirono poche lagrime di sangue, erompenti dalle piaghe dell'epidermide. Neppure il dolore lo spinse a parlare.
«Parla!», gridò Leonardo.
Ed ecco, subitaneamente, la seconda ceffata del Beretta di Leonardo sulla gota destra. Gli occhi presero a gonfiarsi, ormai violacei.
Izabella, quasi paga, si compiaceva a quell'orrida visione.
«Dategliele di santa ragione, forza!», incitava la fanciulla.
«Sta' zitta tu», disse il colonnello, mentre ormai quell'uomo era divenuto ostia del loro massacro, della loro vendetta.
Il colonnello gli infilò un dito nell'orecchio, indi proruppe un lento fiotto di plasma ribollente. Lo stesso faceva Leonardo all'altro orecchio. Il suo viso era divenuto una maschera di sangue, irrorata onninamente della rubra lucentezza di quant'entro vi fluiva.
Izabella mi s'appropinquò, poi mi parlò, «santo cielo, quest'uomo è più taciturno di Peng. Se me lo permettessero, lo farei parlare io».
«No, Izabella. Credo che stia soffrendo fin troppo». Intanto l'intero plotone, decisosi a pestarlo, aveva dimenticato quanto cercava. L'avrebbero ucciso.
«Be', se lo merita. Avresti dovuto vedere quando mi ha messo la mano sulla bocca e quel coltellaccio sulla gola. Per mia fortuna, il suo VHF ha preso a vibrare, e così mi sono liberata dalla presa e ho tentato d'ucciderlo. È stata un'impresa levargli di dosso le armi».
«Come l'hai disarmato?», le domandai.
«Be', gli ho schiacciato i linfonodi e sono riuscita a staccargli il fucile ad armacollo mente urlava di dolore. Come ora».
In risposta ad Izabella urlai alla truppa:«Lasciatelo! Così l'ucciderete. E non otterrete ciò che volete. Lasciatelo!».
Il colonnello si fermò di scatto e, ripresa la ragione, ingiunse di fermarsi. Avrebbero continuato a torturarlo in un altro momento.

«Colonnello», disse Izabella, «mi è sembrato che avesse un VHF. Per poco l'ho sentito in funzione. Quindi credo che qualcuno stia monitorando le sue azioni».
«Grazie, Izabella. Presto sapremo di più sul suo conto, giusto?», affermò digrignando i denti verso la maschera sporca di sangue del soldato. O per lo meno tal sembrava.

«Senti, Izabella. Prima che te ne andassi arrabbiata, mi hai parlato di tua madre. Anche prima, quando stavi per ammazzare quell'uomo, hai detto qualcosa al riguardo...», sospirai, e prendendo coraggio, «che cos'è accaduto a tua madre?».
Izabella si voltò al vuoto, «mia madre. Mia madre era un'oncologa. Come, del resto, mio padre. Mi raccontava che si conobbero al liceo, lei se ne innamorò così tanto che scelse la sua stessa facoltà, pur di non perderlo. Ed effettivamente, poteva farlo: aveva tutte le carte in regola. Cominciata l'università, si fidanzarono, e si amarono fino a quel giorno.
Io ero tornata da scuola. La casa era ormai allestita a festa. Sai, il Natale era vicino.
Sono stati mio padre e mia zia a comunicarmelo. Quella meretrice non si dava proprio tempo, eh. Mi hanno detto, in lacrime, che era stato diagnosticato un tumore, a mia madre. Un tumore a mia madre. Ormai era in metastasi, e si era originato dal cervello. Da un po' di tempo infatti notavo che si addormentava farfugliando, tra una parola e l'altra, ma mai avrei immaginato un tale stato di cose. Ho pianto, ho pianto tantissimo; al fianco di mio padre, che l'aveva diagnosticato, sbiancando a quella vista. In America gli ospedali erano ormai quasi tutti chiusi a causa del batterio: infatti, non essendoci apparente cura, si sarebbero soltanto riempiti inutilmente di gente morente. Così, dopo una serie di ricerche, mio padre s'è accertato che l'unico Paese che avessimo potuto ancora raggiungere, e in cui qualche struttura ospedaliera fosse attiva, era la Cina. Shanghai o Pechino erano mete irraggiungibili, sia per la quantità dei voli sia per la babele cui saremmo andati incontro. Quindi abbiamo optato per Baotou, una cittadina tranquilla in cui si fosse potuto almeno scorgere un barlume di speranza. Be', che dire? È stato un enorme errore. Il batterio era arrivato anche qui, gli ospedali erano aperti ma i mezzi carenti. Così mia madre è morta.
L'ho saputo da un medico, ormai troppo anziano per lavorare, e credendo d'esser la sola, mentre il mondo mi crollava addosso, sono andata nel nostro appartamento. L'avrei detto a mio padre e a mia zia. Ero pronta al dolore che li avrebbe travolti, ma molto evidentemente mi stavo sbagliando. Erano in camera da letto, giacevano insieme su quel talamo di lino, nudi. Enormi chiazze di sangue tingevano la camera, dal pavimento alle pareti. Cercavo di farmi strada, resistendo a quello spettacolo. Si stavano baciando, si sentiva il suono viscido della saliva e delle loro lingue che s'incrociavano, sporche di sangue, come il loro mento, il collo, le guance. Mio padre aveva tradito mia madre per sua sorella, la baciava ormai agonizzante. Le toccava il seno e i capelli, lasciandovi il loro sangue, fusosi in un sol liquido corporeo. Si stringevano, erano incatenati in quello scempio; sin quando la morte non li ha snodati. Mio padre è caduto sul cuscino, che si è macchiato di rosso. Era morto. Quella meretrice di mia zia è rimasta ancora in vita per pochi istanti . Ha leccato il sangue dalle labbra, mi ha guardato. Poi ha toccato il petto di mio padre morto, quattro strisce di sangue ne hanno intriso i peli grigiastri. Ho provato odio. Tanto odio. Perciò ho usato quella pistola che mi dicevano sempre di portare, ma su di lei. Ho puntato a quella faccia spregevole e l'ho fatta esplodere. Non ricordo esattamente quant'ho sparato. Ma so che di quel viso di merda non è rimasto nulla, fuorché una sanguinante poltiglia.
Gli unici che mi hanno fatto riscoprire quanto sia bello avere una famiglia sono stati Peng e Cai, li ho incontrati poche settimane dopo. Si erano smarriti. Così ho deciso di aiutarli a cercare ciò di cui avevano bisogno: affetto. Sono rimasta con loro. Per mesi interi. Finché voi non me li avete uccisi».

Un nastro di pallide stelle, al seguito di Venere, precideva di luce la volta, mentre il Carro del Sole baciava ormai l'orizzonte, in un bacio sanguinante, annunziatore dell'algore notturno.

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