Capitolo VII - Insidia

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Cominciammo ad incamminarci lungo le pendici di quei monti sabbiosi, modesti per dimensione e altezza: non sarebbe dunque stato difficile giungere dall'altra parte, in fondo, non ci restava che seguire alcuni sentieri, in apparenza recentemente costruiti, quasi per estremo bisogno, bisogno di giungere dall'altra parte. Non sarebbe parsa una novità, ma quel giorno il sole ardeva nel cielo più che mai, sembrava intento a ridurci in polvere.
Procedevamo, come avevam fatto pel viaggio intero, in assetto da battaglia, ch'io così solevo chiamare: il colonnello e i veterani dell'arme eran disposti ed allineati dinanzi a tutti. Io e i più giovani soldati occupavamo l'ala posteriore di quest'azzardato esercito.
«Attenzione alla frana!», giunse da pochi metri di distanza. Effettivamente, sulla cima del monte che si posava sul pendio che attraversavamo si stava consumando una piccola frana, e qualche roccia scalfita dalla sabbia arrivava sino a noi: dovevamo necessariamente prestare attenzione, perché la situazione, com'era proprio di quel maledetto luogo, sarebbe potuta stravolgersi in pochi istanti. Ma non sarebbe stata la frana la nostra maggior preoccupazione in quei momenti.
«Che cos'è quello?», disse uno dei soldati, cui seguì un curioso vociferare. All'orizzonte azzurrissimo di quel giorno si scorgeva una macchia nera, che, passando pel deserto, si avvicinava sempre di più ai monti. Proprio mentre m'avvedevo di che cosa stesse producendo quel lontano rumore, «è un elicottero. Un elicottero cinese», asserì il colonnello. E poi, borbottando, «che ci fa qui un elicottero!?». «Presto, riparatevi tra la rocce o negli arbusti. Dobbiamo fare in modo che non ci veda». Io mi nascosi con due altri uomini tra le foglie taglienti d’un grosso cespuglio, d'un verde pallido, un verde-morte, direi. L'elicottero giunse sulle pendici del monte, ove rimase per pochi minuti, attendendo qualcuno, forse noi. Su quel metallo grigio si discerneva incandescente il rosso intenso della bandiera cinese, tagliato dal giallo acceso delle stelle: il comunismo aveva divorato l'Asia, e non lasciava in pace neppure i deserti. Infine si decise ad oltrepassare i monti, dirigendosi probabilmente in un qualche centro abitato al di là della catena montuosa, chissà, forse nella stessa Baotou.

Appena l'elicottero si allontanò, tutti ritornarono sulle posizioni assegnate, ma, quello, fu un grande errore.
I cinesi ci avevano teso un'insidia: l'elicottero cambiò rotta in modo pressoché convulso, spaccando il cielo. Tutti eran più lieti che non ci avesse visto, ma l'allegrezza di quegl'istanti smorì nell'echeggiare meccanico di proiettili metallici che trapassando la sabbia fecero impallidire l'intera truppa; finanche il colonnello sbiancò, dacché non aveva considerato il fattore sorpresa. Profondamente adontato, non gli restava che un sol ordine in quel momento:«Fuggite. E sparate all'elicottero se possibile». Non potevamo restare insieme, o vi sarebbero state sin troppe vittime, così decidemmo di separarci in coppie o gruppi di tre uomini. Io andai con Leonardo, che mi lasciò utilizzare un grosso e pesante Beretta AR 70/90; sentii una tumultuosa vis scorrermi nelle vene. Seguii Leonardo, che si spostava da una roccia al primo arbusto che gli si palesava lungo il sentiero. Dopo esserci nascosti, e accortici che l'elicottero si concentrava sugli altri, prendevamo a sparare. Al suo ordine, che m'empiva d'inopinata adrenalina, «fuoco!», puntavo per poi iniziare a sparare senza pietà, seppur la mia mira non fosse tale quale quella di Leonardo. Eravamo riusciti a infrangere buona parte del finestrino di quell'ordigno malefico: fu questo per me un enorme successo, ma troppo presto cantavo vittoria. L'elicottero fece per volgersi verso di noi e sparò, sparò con foga assassina. Io e Leonardo scappammo in preda ad un panico ghiacciato, che non lasciammo trasparire agli altri, cercando rifugio alle spalle d'una roccia color ocra, che, per nostra sfortuna, toccava il vuoto di quelle altezze: potevamo cadere da un momento all'altro, inseguiti da quella scarica di proiettili, che, giunti alla roccia che ci faceva da scudo, pronti a farne da diabolico nimbo tra i cieli, la dilaniavano. Nostro angelo fu però ancora il colonnello, esortato dall'amore per i propri uomini, nolente a perderne altri. Egli prese a sparare contro le eliche, con mira invidiabile, e lo stesso ordinò agli altri soldati, così s'udì un circuito staccarsi: l'elicottero sarebbe precipitato proprio sul sentiero. I soldati sparavano con impeto, furiosi, ma i piloti cinesi furono abbastanza abili da riuscire a prendere i comandi dell'elicottero e da tentare un atterraggio, allontanandosi da noi a vista d'occhio, questa volta, oltrepassando definitivamente le montagne. Alcuni soldati continuavano a sparare nel vuoto, perciò il colonnello li interruppe ingiungendo di non sprecare preziose munizioni.

Mentre il gruppo si faceva sopraffare dalla quiete, nonché dal pericolo scampato, «com'è arrivato sino a noi quell'elicottero?», interrogò il colonnello infuriato, «chi gli ha permesso di ottenere le nostre coordinate?». Trasse lo stesso fucile testimone dell'uccisione di Ronald, ancora macchiato di sangue, e ci ordinò di lasciare a terra gli zaini. C'era un traditore.

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