Capitolo XXIX - Amara dolcezza, dolce amarezza

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À M.lle la Comtesse A. de Fürstenstein,

Presto.

sotto voce

Atropo punicea tra i glauchi stami. Un morbo. Una malattia. La morte. Il leto. Il lieto leto, nel Lete. Allegrezza. Sonno. Oblio. Il batterio. È questo il batterio.

Il batterio si compiace del nulla.

«È un bacillo». Gli occhi di David. Le sue vene rosee. Assiepano i suoi occhi. I suoi occhi sono come chiodi, buchi saturi. La sua bocca, un altro chiodo, un lungo buco che conduce al nulla, che si slega da sé. David non mi parla molto. È superbo?
«Un bacillo di Koch». Questa è Chunyi. Come David, anch'ella è una microbiologa. Non è sensuale come il maresciallo. È più rigida. Più siderale. Mi piace. Ha lunghi capelli neri. Anche i suoi occhi sono neri. La pelle è candida, nivea. Profuma di narciso. Parla poco. So che è miope, ma non indossa quasi mai gli occhiali.
«È il bacillo responsabile della tubercolosi». Che guardo innocente che ha David. Che cosa si aspettava? Un alieno? Non ne ha mai visto uno? Se non alieni, che cosa sono gli altri?
«Non ha senso», quale cristallino stupore su quel volto divorato, «il governo s'è fatto beffa di noi sin dall'inizio, quindi». Mi vien da ridere al sol pensiero. Metri interminati di deserto, fanciulle smembrate, suicidi, terrori, e poi? Un'illusione. Un po' di sana tubercolosi. Incoscienti!

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Chunyi cascò su d'una sedia di metallo lucido, piangente. Vi sprofondava, come le sue dita sottili pertugiavano e giocavano con poche strisce di fronte amorfa. Poi fissò il soffitto di quel curioso laboratorio cilindrico, tutto vitreo, compresso tra il pavimento e il sopraccielo. Teneva le gambe strette, i gomiti foranti le ginocchia. Un niente. Era conscia di questo?
David si accasciò contro gli strumenti di lavoro. Al diavolo microscopi, batteri o cure. Solo un fallimento. A che cos'era servito il loro sudore? A che cosa i loro anni di gravi studi? A che cosa serviva tutto questo, ora? A un bel niente. Nessuna cura. Nessuna speranza. L'unica redenzione era la morte, un dolce sonno. Sul bancone c'era solo un po' di tubercolosi, tutto qui. Che cos'aveva fatto torcere Ronald su sé stesso? Che cos'era quel sebo lento, immacolato?

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«È del tutto assimilabile al grasso animale: è fatto solo di lipidi, nient'altro. Non capisco». Non capiva. Che cosa intendeva capire? Il batterio è una maschera della morte. È stata la morte a fare tutto questo. Il batterio era solo un'allegra trovata. La morte avrà pensato:«Sono stufa di continuare così. Ci vuole una curiosa novità, qualcosa che mi faccia stare nelle loro teste in ogni momento». Ecco qui. Una trovata. Avrà gridato εὕρηκα!, ne sono certo.

Perché trovare una cura? Il batterio non vuole alcuna cura. La morte è incurabile come l'uomo. È un nulla insanabile; neppure una certezza, altrimenti vivremmo felicemente.
Dobbiamo trovare una cura perché temiamo il nulla. Abbiamo paura del sonno, un sonno incombente, che ci trapassa ogni attimo.

Morte è soltanto una parola, e una parola non ha senso. Sonno. Un'altra parola. Due parole, insieme, possono contrattare un senso. Consanguineus lethi sopor. Morte e sonno. Due dolcezze? Due amarezze? Due amare dolcezze. Due dolci amarezze. Un sopore dolciastro. Un sapore dolciastro, tra le carni viscide della mia bocca, addosso a quel serpente ch'è la mia lingua. Che differenza c'è tra morte e sonno? Perché non abbiamo paura di dormire, ma siamo terrorizzati dal morire? Solamente perché Ipno ci mostra l'agalmatico Morfeo? Quel molle compenetrarsi e liquefarsi di forme? Forse si sogna anche da morti. E si sognasse da vivi? Che differenza c'è tra vita e sogno? Nessuna. Ed ecco perché Morfeo ci sta sempre innanzi a fare il giocoliere, in questo sogno dolce amaro. Non vogliamo mai cessare di sognare, siamo inebriati da Morfeo più che da Dioniso. Al suo cospetto Eros può anche squagliarsela di soppiatto: non se ne accorgerebbe nessuno. Preferiamo continuare a sognare la nostra amarezza piuttosto che amare. Poi, se è Thanatos ad andar via, siamo più lieti che mai. Qual è la nostra greve ambascia? Che né uno né l'altro se la squagliano, ma indispettiscono gli uomini, spintonandoli, sbeffeggiandoli; mentre Morfeo finge un'artata serietà. Ma quanto ci piace! A questo non vogliamo una cura. Non c'interessa che Thanatos ci mostri il suo sporco deretano o che Eros ci faccia soffocare con la sua pungente fellatio. Che ce ne frega!

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Ciò nonostante, appena qualcosa ci addolora un poco più, tutti corriamo alla volta del passato. Vorremmo che quella piuma sulla bilancia non fosse stata portata via dal vento, senza che ne godessimo ancora un altro po'.
Il batterio è il vento che ci ha soffiato via la piuma, e il vento non si può fermare. Il vento si accavalla impetuoso nell'aria e muove anche quanto aria non è. Il vento non se ne frega nulla. Il vento è come noi: non intende affatto cercare una cura a sé stesso, perché altrimenti non sarebbe più vento.

«Così, il governo ha giocato con noi tutto questo tempo?». Alberto. Che aria giovane! Che fresca brezza! Che frizzante esistenza! Occhi verdi, quasi giallastri. Due labbra carnose, dei capelli rossi. Sembrava tutto tanto in equilibrio su quel viso, come se occhi, labbra, capelli -e persino le orecchie!- si fossero decisi a fare i funamboli su d'una corda sericea che poi s'è spezzata, in un momento, in un nulla. E perché? Perché non appena le sue orecchie hanno udito il vuoto non capisco di David, il suo cervello ha scritto con un gesso bianchissimo, su d'una lavagna nerissima, fallimento; e sicuramente, dopo, anche una sentita risata di scherno. Nel medesimo attimo le sue sopracciglia hanno fasciato i suoi occhi, che son diventati scuri come legno bagnato, mentre le sue labbra si son corrugate in un movimento piccolissimo e convulso, quasi intendesse strapparsene una.
I capelli, infine, sono impalliditi come quelli d'una vecchia foto appiccicata ad una bara con poco nastro.

Silenzio. Afasia. C'era nell'aria quello che c'era in tutti loro: nulla. Nessuna risposta. A che cosa serviva un'ulteriore conferma?

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«Può darsi che, seppure siano identici in apparenza, agiscano diversamente», le sue nari s'incrinarono, gelate, «abbiamo bisogno di provarlo».
«Provarlo su che cosa?», gli urlò Chunyi.
«Semmai, su chi?».

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