Capitolo XVIII - Stelle stridenti

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Mentre l'orbe lunare luceva languido tra i cieli, dopo quel giorno passato digiuni, il colonnello e i suoi facevano per riposarsi, tra le macerie, aspersi dal lucore celeste, smarriti nel sonno ma non ancora nella morte, non ancora attuffati nell'oblio grifagno della dipartita. Ancora qui, tenaci, a sfidare quanto invece cagionava morte, dolore, vendetta.
Pochi aliti di vento trafiggevano dolci l'intera città, movendo le erbe secche e la sabbia proveniente dal deserto, che circonfondeva il centro urbano, vedovo dell'umano spirare, membrante le luci terrestri, cristallina lorica dell'uomo, di cui pande la pochezza, il debile cuore, la paura, che come la morte si profonda nella tenebra, donde polla il plasma del male. Ma siamo sicuri che il male sia nell'oscurità?

Izabella si cubava come una feace ancella al servigio dell'inclito Alcinoo, padrone dell'isola di Scheria, aspirazione umana all'Eden primevo, da cui il multiforme Odisseo giunse in patria, la sua Itaca. Ma dov'era la nostra Itaca? Dove la nostra Penelope? E poi, come Odisseo, l'avremmo nuovamente abbandonata per le liquide vie, per l'azzurro e freddo abbraccio del mare?
M'appropinquai a quella languidetta labbia, quel volto pallido di fatica, memore di dolore.
«Izabella, hai detto che ami i film d'azione. Ma che cosa pensi delle stelle?».
«Penso che siano il sommo celeste cui l'uomo non giungerà mai, il limite oltre cui fluisce l'ambrosia, la sede dell'immortalità. Sebbene la razza umana sia ormai destinata a perire qui sulla terra petrosa, non dubito che verrà da quegli albescenti atomi lontani che simili ad occhi scrutano ed esornano il grigiore della magione umana, una congiunzione a quella divina, un redentore; ma so che, chiunque o checché sia, ci salverà da questo schifo».
Si strinse convulsamente le cosce, candide di luce, poi m'abbracciò.
«A me le stelle piacciono tantissimo», sussurrò, «ma so anche che, per quanto possano piacermi, non le vedrò ancor per molto».
«Perché, Izabella?».
«Perché quel dannato batterio si è fuso a me, al mio cuore, olezza d'amore e con esso decede. Sapido d'un amore mortale, d'una morte amorosa».
«Che cosa vai dicendo?».
«La vedi la luna?».
«Sì, la vedo». Rabbrividii.
«Bene, il tuo viso avrà lo stesso pallore».
Mi strappò dal volto la maschera, la luce della luna imbiancò le piaghe della mia pelle. Trattenni il respiro. Poi mi baciò. Sentii le sue labbra morbide divorare le mie in un ardore letale, aulente d'una morte passionale. Izabella, tu mi amavi. L'amplesso si fece ancor più saldo, il mio collo era stretto da forze più grandi di quelle che a me medesimo appartenevano. Furono attimi morituri, sebbene paressero sempiterni. Sentii lo sbattere, forse il postremo, delle sue ciglia vibranti, curvanti l'aere, che si scontrarono coi miei occhi, piegando le membra nella perfezione d'un bacio, in quell'amore innocente, puro, di cui io stesso fui immemore sino a quel repente momento. Mentre la lava incandescente che erompeva da quelle labbra si smorzava, io, paonazzo, snodai l'abbraccio che m'incatenava alle sue carni. Rimisi tosto la maschera. I miei polmoni s'empirono di nuovo d'aria, ne spirai l'inodore piacere, la salvifica brezza.
Izabella era tra le mie braccia, cullata nella morte, le stelle si specchiavano ormai su quelle pupille irrigidite dall'obito. Il sangue proruppe quale flegma dalle labbra tagliate dall'aria. Il batterio. Perché non l'aveva uccisa violentemente? Aveva forse provato pietà? Il fluido corporeo giunse sino al mento, colando lento al seno, in guisa che tracciasse una linea rossa, che parve scernere due corpi egualmente freddi, freddi di morte.
Avrei voluto gridare aiuto, svegliare gli altri, ma ristetti, su quell'alma, ormai divenuta una stella del dipinto astrale, del firmamento bellissimo. Scoppiai a piangere. Quelle lagrime, amare come fiele, solcarono un istante le gote, per indi bagnare, smagliando quali cristalli, la componente vitrea della maschera, obnubilando così la vista delle spoglie dell'inulta fanciulla. Ahimè, cercava vendetta, benché mai da questo cosmo l'abbia avuta!
La querimonia del mio pianto svegliò poi il colonnello, che, destatosi, fissò, con gli occhi lucenti di sommesse lagrime, il corpo d'Izabella, morto tra le mia braccia, le quali ancora lo stringevano, pregandola di tornare, dicendole che l'avremmo redenta tutti noi, qui, che non c'era bisogno di cercare quel redentore altrove.
«Quella ragazza. Quella ragazza mi ha sempre ricordato una mia figlioletta, si chiamava Amelia. Era la mia primogenita. Ricordo che era ribelle, voleva tutto sempre, litigava spesso con sua madre cercando da me approvazione, e quando...», singhiozzò strozzato dalla nostalgia, «e quando l'aveva si dimenticava anche d'essersi arrabbiata tanto, abbracciava sia me che sua mamma per poi tornare a giocare. L'amavamo. L'amavamo tantissimo».
La luna si proiettò come un riflettore su quel volto tumido, le cui perle di dolore erano mescolate all'acido perclorico della maschera, come un'asta figgente il cuore insanguinato, come liquore inimico del sorriso.
Vennero poi Leonardo, Stephen, Joseph, Alberto, ancora claudicante, tutti piangenti quella fanciulla che mai nessuno veramente conobbe, malgrado tutti riponessero in lei una languida speranza, uno sbiadito desiderio che questo mondo, in quelle pargole mani, potesse cambiare. Ma con lei crollò la speranza, venne meno finanche la fame che ci martirava, tramontarono i sorrisi specchi del presente e sorsero i ricordi vie del male che distrugge l'anima. Ognuno s'abbandonò all'ondivaga crocifissione per cui tutti, lì, luttavano. Squarciati nel petto dai chiodi del sovvenire sui palmi delle mani, dalle viti dell'ardire lungo le vene pulsanti dei piedi già freddi, mentre ogni goccia di sangue irrora il cuore, tenta d'infiammare ancora la sorgente del dolore, del piacere, delle emozioni. La scaturigine della realtà umana, spenta in quei pettorali enfiati di sangue, prossimi alla morte.

Poscia che le lagrime ebber fatto madido di lutto il suolo, tutti attendemmo l'aggiornar propinquo. Morfeo lasciò languire i corpi e gli spiriti; non v'era più modo, quella notte, di baciarne ancora il soffice inganno, poiché sgannati dalla realtà crudele, proni ormai a scorgere la nostra stella albeggiare sui crini sudanti. Lasciammo che gli sguardi s'incrociassero, mentre i cuori ascondevano il pianto nelle latebre della carne. Ci demmo coraggio, senza mostrarne sembiante. Fingemmo di non voler morire anche noi. Preferimmo aspettare l'aurora, che pingendo rosea i cieli recava il nunzio dell'inopia, del dolore, della vendetta.

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