Capitolo XXXVII - Melanconia

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Che cos'è la vita se non una velleitaria tensione tanatica?

Fulgevano di candida luce al neon sulle ferree pareti i due leoni ben mitriati di John Deacon e Roger Taylor. La fenice incombeva di fiamme come la morte di freddi viluppi, come capestri gelati che piagano la pelle, che iugulano l'uomo allo spezzarsi deciso delle costole. Torpe il corpo, ma già lo spirito in vita mai è desto, giacché allucinato dal luna park dalla suggestione, dall'incresparsi informe della realtà. La luna. La luce. Chi da lì poteva scorgerle come volevan plasmarsi? Nessuno. Solo riproduzione. Imitazioni vuote.

La lingua turgida non degli sputi erotici, che si godono staccandosi, ma degli sputi letali e inodori del tramonto, era bella e albescente alla vista. Il laccio bianco del lenzuolo cingeva il collo nella morsa profumatissima del suicidio. Che cos'aveva fatto? Era evaso. Quando un prigioniero, per capriccio, fugge di prigione, non è mai certo che godrà a lungo della propria libertà. Prontamente viene scovato e condannato nuovamente al suo fato, che tanto lo rasserena. Ma il suicida ha calcolato tutto, ha marchiato i muri del suo gesso bianco di progetti ed è pronto a calare il sipario: lo spettacolo è finito. Ora ci sono la coscienza della libertà e il solletico del passato, quel peso mai troppo remoto che non può morire, sempre avvinghiato al martire, tetragono al vago Lete. E il suicida ne ha una nostalgia melata: non l'ha dimenticato, si guarda indietro e colpisce un palo. Grida al mondo quanto ami e desideri la sua vita ch'è stata, piange il prigioniero ch'era.

Era nudo. Gli abiti accismavano in quello spezzone di poesia il letto in pieghe. Il seme era scivolato dallo scroto alle gambe: aveva seguito la strada che s'era spianata tra i peli neri e folti di quell'arto violaceo. Pochi millimetri e l'alluce avrebbe toccato terra, la medesima terra per cui il biancor di vita era forse già più tiepido, mentre in una striscia diafana teneva stretti il corpo in aria e il ferro in terra.

«Da quanto tempo questo cadavere versa in simili condizioni? Comincia a puzzare». Così parlò il maresciallo Chen, coi lacrimoni agli occhi. Che mentisse?
«Non lo so, maresciallo. Ero venuto per invitarlo a far colazione con noi. Non avendo sentito alcuna risposta, ho preferito aprire la porta rimasta socchiusa. E poi...», parlò Yafu rabbrividendo e sguardando quel corpo morto. Le gronde d'un pianto larvale.
«Getteremo anche Yiji fuori dal bunker? Vuole che l'accompagni anche questa volta?», dissi.
«Non lo getteremo fuori dal bunker. Era un mio uomo. Marcirà con noi, in questo bunker».
«Ma maresciallo, sta ammattendo? Vuole che lasciamo il cadavere qui?», urlò Jiao.

Scorsi Alex stringersi negli spasimi gastrici dell'orrore, benché tentasse d'asconderlo e velarlo. Cosa meno che inutile innanzi a quell'atomo sotterraneo d'emotiva indifferenza.

«Non lo lasceremo in camera, sciocco. Comincerebbe a putrefare e a rendere la vita qui meno invivibile di quanto già non sia», chiuse gli occhi alla ricerca di quel pensiero che quasi terrorizza al suo subito balenare, «lo lasceremo nella Joke Box».
«Che cos'è?», domandò incuriosito Alberto.
«Una stanza cubica alla fine del bunker. I soldati dei commandi precedenti vi si esercitavano mediante campi di battaglia illusori. Ora non funziona. Potremo lasciarlo lì, a marcire in pace».

Nero il cubo e non meno gli animi eccoci lì attoniti, algidi. Hong teneva il cadavere. Entrammo nella Joke Box, mentre gli altri uomini del maresciallo facevano luce a quegli immensi ed atri spazi. Cercavamo un angolo in cui abbandonare il cadavere. Mai vidi l'ingegno umano tanto ben operato che in quel cubo. Dovemmo camminare nelle tenebre fiocamente squarciate dalle torce per ben mezz'ora. Tenebre in cui poteva diluirsi una città intera, senza che ne rimanesse nulla. La porta che ci aveva dato adito a quel luogo era diventata un grazioso rettangolo di luce in lontananza. Ecco l'angolo. Tre piani neri in un silenzio disumano si congiungevano in un vertice modellato perfettamente. Il tonfo dei passi si fermò. S'udì quello del cadavere di Yiji che cadeva a terra. Una torcia ne imbiancò il solco, avvinto da vene sierose. Lasciammo che il maresciallo Chen passasse. Si pose innanzi al cadavere. Si chinò. La grazia d'una carezza sulla guancia pallida. Gelida. Si voltò verso di noi. Una torcia ne sorprese il volto. Gli occhi, gli occhi brillarono un'altra volta.
Né una parola. Né ancor meno un discorso. Io, il colonnello, Alberto, Leonardo o David non conoscevamo quest'uomo. Non conoscevamo la sua sofferenza. Ma il maresciallo, Hong o Jiao lo conoscevano. Perché non avevano detto nulla? Perché la pietà s'era estinta? Perché neppure una lacrima ma un sembiante indefinito, una melanconia soffusa? Perché?

Alex intanto s'era dileguato.

«Sapete perché s'è suicidato?», interrogò il colonnello.
Il no di Jiao. Nello stesso momento il prorompente del maresciallo, che guatò quello con rabbia.
«Non si piaceva, di questo si lamentava, con toni ironici, quando avevamo l'occasione di scherzare».
«Perché non si piaceva?», chiesi.
«Diceva d'essere più grasso rispetto a tutti noi. Si definiva il ciccione del plotone. Si lamentava solo di questo superficiale paragone. Nient'altro».
«Quindi non c'era alcuna possibilità d'aiutarlo?».
«Non siamo degli psicoterapeuti. Non sappiamo perché abbia fatto quanto ha fatto. Non sappiamo neppure perché abbia scelto di proseguire la missione. Era conscio dei rischi. Che abbia visto troppo sangue? Che sia inorridito innanzi alla morte dei suoi commilitoni? Che non sia riuscito a sopportare quest'inferno? Non lo sappiamo».
«Chissà perché il dolore è muto», sussurrò Chunyi.
«Forse perché è egoista. Non vuole aiuto per non cessare di straziare l'uomo», ribatté il maresciallo.
«Sì, forse».
«Che rapporti aveva col resto del plotone?», mormorò il colonnello in una melodia, quella, che andava sempre più scemando.
«Era un tipo introverso. Ascoltava anziché parlare; e aveva un'ottima memoria. Quante password c'erano in quella testa. Peccato. M'era anche simpatico», proferì Hong con voce prima sommessa e poi più chiara e limpida.
«Non mortifichiamoci. L'abbiamo protetto e reso sempre parte efficiente del nostro plotone. Il nostro ufficio di colleghi di lavoro, di compagni di guerra terminava lì. Su un terreno diverso cominciava quello dello psicoterapeuta».

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