Capitolo VIII - Il traditore

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Gli zaini posati giacevano su quell'arena bollente. Non poco avevamo sudato prima di quei momenti, ma allora il mio viso, come quello d'ogni soldato lì presente e perfettamente in ordine, era madido di sudore e sporcizia, mentre il sangue soffondeva lietamente di rosso quel volto funereo.
«Ebbene qui è presente un traditore. La promessa non è stata mantenuta: uno, o, chissà, persino più d’uno, ha infranto il vincolo che finora ci ha uniti in questo viaggio». La sabbia, che lassù era più raffinata, scricchiolava al cupo incedere del colonnello, che col braccio sinistro articolava le proprie parole, mentre col destro teneva stretto l'AK-47.
Anch'egli rorido di sudore, il respiro affannoso; non cedeva, non si consegnava all'umiliazione.
Sparò un colpo secco al terreno, tutti sobbalzarono, «allora», urlò, «che aspettate? Aprite questi maledetti zaini. Quell'elicottero l'avrà pur chiamato qualcuno, no?», ci rimproverò, e in quei momenti figgeva i suoi occhi sui miei. Sudavo ancor di più. Poteva uccidermi, e sapevo che non avrebbe esitato.
«Se poi ha voglia di giocare, bene! Prenda un'arma e mi mostri il suo valore!», per poi mormorare:«Purché si possa definire uomo».
In pochi minuti tutti trassero dagli zaini quant'essi contenevano. Si sporcarono di sabbia pistole, fucili, ricariche, per non parlare di abiti sudati o scottanti sacchi a pelo. Il soldato che mi aveva accompagnato e protetto dall'attacco cinese, Leonardo, tirò fuori una foto, non troppo ingiallita, che ritraeva la sua famiglia. Lui guardava fieramente l'obiettivo, tenendo in braccio un figlioletto e baciando la moglie, in apparenza giovane. Pareva che ella vestisse un semplice abito lilla, succinto da un fiocchetto del medesimo colore. La pelle risplendeva, cerea, forse per la luce, forse per l'amore, mentre baciava il marito in quel franto amplesso. Una lunga treccia vedeva intrecciarsi due file di capelli, nerissimi che, carezzando il seno, decorosamente contenuto nella veste, mettevano in risalto una collana di perle, il cui colore ben poco si scorgeva. Teneva gli occhi chiusi, immersi in quel languido bacio, ma non mi sarei stupito che fossero verdi come lo smeraldo, bella com'era quella donna sconosciuta. Il calco di una biro mostrava in alto a destra un cuore, fatto velocemente ma energico come il vincolo sacro dell'amore.
Il figlioletto, che mi parve Astianatte, protendeva le braccia carnose verso la madre, con in volto un sorriso innocente e puro, mentre un vestitino blu gli opprimeva il piccolo corpo accolto nel petto possente del padre. I tre erano seduti gaudiosi su un viride smalto, su cui si posava un'altalena e un triciclo verde e blu, che appariva offuscato rispetto alle figure in primo piano.
Non feci in tempo a levare lo sguardo dalla fotografia, che sentii il ferro ghiacciato del fucile affondare sulla mia chioma, seguito dal malefico rumore prodotto quando venga ricaricato. Impallidii. E in una smorfia di pietà mossi il capo verso il colonnello, un demone sputato dall'Averno.
«Apri quel maledetto zaino e mostrami che c'è dentro!». Le mani tremule, le occhiaie grigie di fatica e calore. Ruppi convulsamente la cerniera che ne serrava le cuoia, e ne trassi quanto avevo portato meco durante il viaggio.
Nulla che potesse sembrar diverso da ciò che gli altri recavano, ma, dopo, il colonnello Amaldi si accorse di qualcosa. «Quello è forse un cellulare?». Dalle pieghe degli abiti sudati e insozzati di sabbia affiorava lucente uno schermo nero. «Merda», pensai, «è il mio». Avevo utilizzato il cellulare, rimasto spento, soltanto per avvisare ingenuamente il governo di quanto avevo scoperto sulla tavoletta. Così facendo avevo messo in pericolo un'intera operazione, e stavo per pagarne le conseguenze.
Il colonnello non accettò scusanti, prendendomi per il collo, dolore di cui ancor rimembro l'impotenza d'agire, mi gettò sul terreno. Trattenni il pianto. Poi puntò contro di me il fucile. Mi si palesava il buco scuro della canna, ancora insanguinato. Ero pronto a morire, ma il mio animo vile mi suggerì quanto sarebbero state le mie ultime parole, oltre cui non avrei avuto vale alcuno.
«Ma... Ma...», osai balbettare, «se mi ucciderà, chi tradurrà la tavoletta?», che intanto giaceva ancora nello zaino, «e poi... insomma... E poi, non era mia intenzione tradirla», singhiozzai. Il colonnello sparò. Saltò ogni componente, di quel corpo metallico; lo schermo, come la batteria e ogni altro diabolico aggeggio lucente s'erano posati sulla sabbia dopo lo sparo, che ancora una volta fece trasalire tutti.
Tirai un sospiro di sollievo: l'avevo scampata, ed era tutto merito di quel pezzo di cera. Che cosa poteva mai contenere?

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