Ninive aveva passato l'intera giornata a osservare e spiare. Qualunque movimento, sussurro o sibilo non passava inosservato se lei era nei paraggi. E Ninive aveva tutte le ragioni per rimanere nei pressi dell fortezza. Dopo essersi congedata dalla regina - recitando brillantemente la parte dell'anziana servetta devota - la donna si era messa all'opera, seguendo il piano che la sua padrona le aveva impartito diligentemente da tempo. Dopo mesi passati ad agire sotto mentite spoglie alla mercè di quella smorfiosa giovinetta che si apprestava a diventare la regina di un regno marcio, era finalmente giunto il tempo di passare all'azione, sferrando la sua mossa. Il piano era appena cominciato, ma la donna aveva usato le sue capacità divinatorie per conoscere i pensieri della giovane regina durante il loro colloquio dopo le nozze. Era delizioso poter spiare nella mente di qualcuno quando quest'ultimo era ignaro di quello che gli stesse per accadere. Ninive era un'ottima fattucchiera ed era stata a lungo tempo educata alle arti oscure così come la sua padrona. Le donne erano di gran lunga superiori in questo rispetto agli uomini anche se la storia aveva sempre cercato di ribadire il contrario - o di nascondere tutto questo anche con pratiche inumane. Il nuovo credo - portato dagli invasori romani - così come quei santi uomini che si definivano servi di Dio - erano patetici in confronto al sapere che la Dea Madre custodiva nel suo lontano eremo. Lì, sacerdotesse - guerriere praticavano ancora gli antichi culti e iniziavano le giovani adepte all'antica arte della magia attraverso misteriosi rituali. Ninive, come molte sue consorelle, era stata una delle prima allieve della Dea ed aveva ricevuto in cambio il potere necessario per sopravvivere all'era oscura. Ora, divenuta anziana e indebolita dal corso del tempo, aveva deciso di passare il testimone ad una consorella più giovane e abile di lei. La stessa consorella che ora chiamava padrona. Era per sua volontà che la donna era tornata a Leones quando aveva ricevuto notizia dell'avvento di un nuovo re e del suo voler contrarre al più presto un matrimonio per il futuro della Britannia. Il farsi accogliere così bonariamente dalla famiglia di Ginevra e riuscire a convincere quest'ultima a sposare il figlio di Pendragon era stata una mossa sensazionale. Perfino la sua padrona si era complimentata con lei per quella brillante intuizione. In tutto questo tempo, nessuno di loro - perfino il grande Merlino - si era accorto chi fosse. Era evidente che il suo travestimento avesse fatto il suo dovere, celando la sua vera identità a tutta la corte. Quella sempliciotta della regina pensava ancora a lei come alla vecchia nutrice che l'avesse educata da bambina così come una nonna fa con la propria nipotina. Tutto riuscito perfettamente sotto il naso di Artù e del suo maestro. Meglio di così non poteva andare e di questo la vecchia era chiaramente compiaciuta. Ninive assaporò quel momento con piacere come un frutto appena colto, piacevole al tatto e succulento da gustare. Anni e anni passati a seguire il voler della Dea nell'ombra erano serviti a quello scopo. I romani avevano portato un nuovo credo e ridotto il suo paese a un luogo tetro dominato da lupi famelici che non facevano altro che combattersi a vicenda per un pugno di terra. Era vero che Artù si era rivelato un magnanimo sovrano nei confronti di quelli che - come lei - avevano professato l'antica religione degli avi, ma rimaneva pur sempre un traditore così come il suo maestro. Ninive odiava Artù, ma più ancora di tutti odiava Merlino e le sue fandonie. Per lei, il druido traditore era una mina vagante che andava eliminata il prima possibile in modo da non intralciare i piani della sua padrona. Ecco perché quel lungo pomeriggio era rimasta nascosta per lungo tempo a osservare la finestra che dava sulla stanza segreta del mago in attesa che il suo falco argenteo tornasse a casa. Sarebbe stato solo in base alla reazione avuta dal mago che la strega avrebbe compreso quale parte del piano avrebbe dovuto mettere in atto.
Merlino guardava fisso il continuo muoversi della galea verso l'estremità del fiume, spinta con foga dalle correnti del vento che la spingevano verso sud. A ogni falcata, sembrava che il drago scolpito nella polena muovesse perennemente la testa come a voler aggredire le onde contro le quali si infrangeva la prua della barca. Gli occhi scolpiti nel legno davano l'impressione che il mostro fosse in attesa di tuffarsi nella battaglia, pregustando il momento in cui avrebbe bevuto il sangue dei Britanni per colazione. Non da meno erano i membri del suo equipaggio, chiaramente dei feroci guerrieri venuti dalle cave dell'inferno. Merlino osservò quei barbari Sassoni venuti dal mare, avvolti in morbide pelli di lupo e segnati da strani tatuaggi tribali, tipici della grande diversità che esisteva fra i clan del Nord. Linee blu e rosse dipingevano quei corpi muscolosi, coperti di cicatrici e tracce di combattimenti passati. I Sassoni erano famosi per la loro ferocia in battaglia quanto per la loro crudeltà verso i venti. Circolavano voci su macabri rituali che erano soliti compiere una volta ottenuta la vittoria come dono al loro dio padre, Odino, il viandante con un solo occhio. Le testimonianze dei romani erano impressionanti nel descrivere i particolari di quelle sanguinarie usanze tribali intese da costoro come offerte di ringraziamento verso quegli stessi dei che anche loro temevano. La più macabra di tutte alla quale il mago inorridiva sempre quando ne sentiva parlare trattava di prigionieri posti su altari di pietra, sventrati delle interiora e poi appesi per il collo ai frassini alti della loro terra natia. Secondo le loro usanze, quella pratica permetteva agli "infedeli" di essere purificati dai loro peccati e di essere accolti nel "Paradiso dei Guerrieri" dove avrebbero fatto da spalla a Odino nel giorno del giudizio. Per Merlino quello era solo un macabro esempio di come i Sassoni trattavano i deboli e di come avvertivano le inermi genti del luogo del loro passaggio. Al resto ci pensavano i corvi - anche questi ritenuti animali sacri dai Sassoni oltre che un segno di compiacimento del dio orbo per il gesto compiuto - che rendevano i cadaveri impresentabili agli occhi dei viandanti, lasciando che nelle anime di questi ultimi si insinuasse il tarlo famelico della paura. A bordo di quella galea nordica Merlino ebbe l'accortezza di contare il numero di guerrieri che vi erano imbarcati e di quanti, fra loro, erano a tiro su quel piccolo vascello. Il numero era minimo di fronte al possente esercito che aveva visto durante la loro prima incursione sull'isola. A quel tempo le stime che potevano contare erano di quattro a uno contro quelle messe in campo da Artù e i suoi cavalieri. Eppure gli eventi avevano dimostrato che i numeri non sempre davano ragione al più forte. Artù li aveva già sconfitti una volta e i Sassoni per qualche mese non erano tornati. La sconfitta era stata devastante per loro, ma non decisiva da porre fine alle loro scorrerie. Il ritorno di quei bruti confermava la sua ipotesi che, prima o poi, la loro caccia alle terre romane sarebbe ripartita. E quella galea - se pur piena di soldati armati fino ai denti e ben addestrati al combattimento - era solo la prima di una lunga serie che il mago temeva si sarebbe abbattuta presto sulle loro coste. Avvertì subito che le forze lo stavano abbandonando a causa di una scossa che per poco non gli fece perdere il contatto visivo. Sentiva il dolore che Hyden stava provando dopo avergli concesso di entrare nei suoi ricordi e il mago comprese che era il momento di andare. Improvvisamente qualcosa però destò la sua attenzione, tardando il suo ritorno alla normalità. Da lontano, proprio sul ponte della nave, un luccichio metallico lo fece sobbalzare e spingere ancora più all'interno del panorama onirico. Fece appello a tutte le sue abilità di stregone per avvicinarsi ancora di più all'imbarcazione e scrutare da vicino quell'oggetto. Quando si avvicinò alla galea, osservò da vicino i contorni di due figure ancora poco chiare. Una di queste portava indosso una cappa nera, coperta intorno al collo da una pelliccia folta di volpe. Si trattava di due figure distinte e, a giudicare dalla postura e dal modo con cui conversavano, non dovevano appartenere alla cozzaglia ripugnante che faceva da ciurma alla nave. La figura incappucciata stava dritta con la schiena, con le mani giunte verso il basso rivolgendo le spalle alla poppa e con la testa rivolta verso il suo interlocutore. Nell'immagine di Merlino si materializzò la figura di un uomo alto e muscoloso, coperto da un giubbino in pelle che lasciava scoperte le braccia e le spalle, mostrando infiniti tatuaggi rossi e neri lungo gli avambracci. Aveva un collo massiccio con le vene pulsanti ai lati mentre il capo era calvo. L'omone doveva, senza alcun dubbio, essere il capo di quella banda di predoni. Merlino ne ebbe la conferma quando uno dei guerrieri sul ponte lo urtò con il braccio, scusandosi subito per l'affronto chiamandolo jarl che nella lingua di quei barbari significava "conte". Merlino aveva avuto modo di fare pratica nella lingua di quelle genti quando, mesi orsono, aveva seguito gli spostamenti di re Haldan - il precedente re dei Sassoni prima della battaglia contro Artù e il suo esercito - al tempo della prima invasione dei barbari sulla sua isola. L'omone sulla nave - poco dopo il mago seppe che il suo nome era Bjorn - doveva essere senza dubbio un uomo venuto dal nord, anche se ancora non sapeva per conto di quale signore della guerra fosse al servizio. Al contrario, la figura incappucciata stava in silenzio, ascoltando il vociferare sconnesso dei barbari sulla nave e il brontolio del conte, stanco di aspettare ancora immobile sul ponte della nave.
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Artù e Ginevra. L'amore dietro la Leggenda
FantasyBritannia, 510 d.C. Nella terra dei Britanni, a distanza di qualche anno dalla caduta dell'Impero Romano d'Occidente, sale al trono un giovane guerriero, unico erede del defunto Uther Pendragon. Il suo nome è Artù, destinato a diventare una leggenda...